10 Dicembre, 2025
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Blog Pagina 21

Busseto

La Bassa

Immagina di avanzare in una pianura velata: l’aria è spessa, sospesa, quasi incantata. Pare custodire il respiro di un organo antico, che vibra tra siepi di bossi o accanto a un recinto di buoi, evocando il suono stesso della radice agricola e pastorale del nome del luogo.

In questa terra fertile, dove la vita scorre semplice e contadina, emergono le prime case di Roncole Verdi dove una dimora umile, di mattoni e silenzio, racconta l’inizio di una storia destinata a farsi universale: il 10 ottobre 1813, lì nacque Giuseppe Verdi, e con lui il seme della gloria di Busseto.

Tra campi e cascine sorge discreta la piccola chiesa di San Michele, con mura umili e un campanile che si innalza come una sentinella contro il cielo velato. Il portale, semplice e antico, accoglie da secoli i passi dei fedeli del villaggio. Un edificio sorto circa mille anni fa, ma ancora palpitante di voci e preghiere quotidiane. Dentro, l’aria sa di incenso e di legno, e nella penombra si erge l’organo di Giuseppe Cavalletti del 1797, gigante silenzioso che vegliò sul bambino Giuseppe: curioso, timido, intento a sfiorare i tasti con dita inesperte, cercando melodie.

Qui fu battezzato, qui imparò a suonare, qui la comunità lo vide crescere e qui, tra le mura semplici di San Michele, nacque il desiderio di scrivere la musica che avrebbe conquistato il mondo.

Accanto all’osteria paterna viveva la famiglia Verdi. Giuseppe bambino cresceva tra il brusio delle voci e il profumo del pane caldo, mentre il padre Carlo serviva con calma e dignità, custode di un’umile fierezza. Luigia, la madre, filava silenziosa: mani pazienti che trasformavano il filo in sostegno, un lavoro modesto ma prezioso, capace di tenere insieme la casa e i sogni. Carlo, pur senza ricchezze, era stimato: sapeva leggere e scrivere, e affidò la sua serietà persino al tesoro della chiesa di San Michele. In quella semplicità, Giuseppe imparò che la grandezza nasce dall’umiltà.

Ogni giorno, il giovane Giuseppe affrontava il sentiero che dalla campagna lo conduceva al cuore di Busseto: un’ora di passi tra nebbie e campi, per raggiungere il ginnasio e le lezioni di musica. Ma un giorno, quel cammino divenne teatro di un destino sospeso: ancora bambino, scivolò in un fosso colmo d’acqua, e l’abbraccio gelido rischiò di spegnere la sua voce prima che fosse canto. Furono mani contadine, forti e pronte, a sollevarlo dall’acqua, a restituirlo alla vita, a salvare, senza saperlo, la musica che avrebbe conquistato il mondo.

 

Un suocero padre

La sua famiglia non poteva offrirgli studi avanzati, ma il destino gli donò un incontro che cambiò tutto: Antonio Barezzi, droghiere benestante e appassionato di musica, lo accolse nella sua casa come un figlio. Gli fece conoscere Ferdinando Provesi, maestro della banda musicale. Tra spartiti e prove d’orchestra scoprì che la musica non è soltanto intuizione, ma disciplina, architettura, costruzione: un edificio di suoni che si regge su regole segrete, svelate dal contrappunto e dalla composizione.  La Casa Barezzi, oggi museo, divenne il vero cuore della sua formazione: scaffali colmi di libri, strumenti musicali, conversazioni colte. In quel mondo diverso, Giuseppe insegnò pianoforte alla figlia Margherita, che sarebbe poi diventata sua moglie e per la coppia Antonio acquistò Palazzo Tedaldi. Ma soprattutto, Verdi imparò che il talento non basta: ha bisogno di un terreno fertile, di fiducia, di sostegno. La casa di Barezzi fu per lui accademia, rifugio, trampolino. Fu lì che il ragazzo della piccola Le Roncole diventò musicista.

A Milano, nel 1832, il giovane di campagna giunge alle porte del Conservatorio. Porta con sé speranze fragili, studi privati, il sostegno di Barezzi. Ma la commissione lo respinge: mani acerbe sul pianoforte, contrappunto incerto, età giudicata troppo avanzata, “origine forestiera” (Busseto era nel ducato di Parma e non faceva parte del Regno Lombardo Veneto). Un “no” che poteva suonare come condanna, e invece fu l’inizio: chiusa una porta, se ne aprì un’altra.

Giuseppe Verdi era un ragazzo dal talento straordinario, ma il sogno di Milano pesava come un fardello di denaro mancante. Allora il padre Carlo, uomo semplice, e Antonio Barezzi, mecenate e quasi padre adottivo, si mossero insieme: chiesero un sussidio al Monte di Pietà di Busseto o a quella di Parma. Quell’istituzione, nata per soccorrere i più bisognosi, i cui locali oggi ne custodiscono la memoria nella Biblioteca della Fondazione Cariparma. Ciò che ottennero non fu soltanto denaro: fu fiducia, fu investimento, fu speranza di un’intera comunità riposta in un ragazzo. Col tempo, qualcuno narrò che il Monte avesse chiesto la restituzione al Maestro ormai celebre. Ma la storia non trova conferme: è più leggenda che realtà.

A Milano, Giuseppe trovò un maestro: Vincenzo Lavigna, maestro alla Scala. Con lui scoprì che la musica non è soltanto tecnica, ma voce che vibra, passione che arde, vita che si compone in suono. Il Conservatorio lo aveva respinto, ma proprio quel rifiuto lo liberò: non sarebbe mai stato un accademico, sarebbe stato un creatore.

Quando nel 1833 morì Ferdinando Provesi, Verdi divenne direttore della banda musicale di Busseto. La sua esistenza si divise allora tra due mondi: nel borgo era già riconosciuto come musicista, a Milano restava ancora studente, affinando tecnica e stile, nutrendo il talento che presto avrebbe conquistato il tempo e la storia.

 

La tragedia

Nel 1840 Giuseppe Verdi si ritrovò avvolto dalla solitudine più crudele: i due figli, nati dall’amore con Margherita, erano già scomparsi, e poco dopo anche lei, la compagna amata, cadde nel silenzio della morte. Un dolore immenso, che non fu solo ferita privata, ma marchio indelebile sulla sua vita e sulla sua musica. A quella tragedia si aggiunse l’umiliazione pubblica: il fiasco clamoroso della sua seconda opera, come se il destino volesse schiacciarlo sotto il peso della perdita e del discredito. Palazzo Tedaldi, che un tempo aveva custodito l’amore e la paternità, si trasformò in teatro di lutto e solitudine: un palcoscenico segreto, dove la vita recitava il suo dramma più feroce. Eppure, da quelle macerie nacque la forza del Maestro: il dolore si fece canto, la tragedia si mutò in arte universale. Così Verdi, segnato dalla morte e dalla sconfitta, seppe trionfare in Italia e nel mondo, trasformando la sua ferita in musica eterna.

Verdi tornò, ricco e acclamato, alla sua terra. Avrebbe potuto vivere tra gli onori di Parigi, Londra, Venezia, ma scelse Busseto e, nel 1849, con Giuseppina Strepponi, compagna di vita e di musica, si stabilì nel palazzo Cavalli. Era il richiamo delle radici, della pianura che lo aveva visto nascere. Ma la comunità non accolse bene quel ritorno: i bussetani non perdonarono né la convivenza fuori dal matrimonio, né la presenza di Giuseppina, segnata da figli illegittimi e mistero. La cattolica Busseto si era scandalizzata e Verdi si sentì giudicato, isolato, respinto. Non rinnegò la sua terra, ma decise di osservarla da lontano, rifugiandosi nella solitudine di Sant’Agata, ora villa Verdi, tra orti e vigne, animali e stanze silenziose, dove il fiume Ongina scorre lento e la nebbia avvolge i campi come un velo di malinconia. La villa divenne il suo regno privato, un laboratorio segreto dove il dolore si mutava in canto. Fu un ritorno, ma non un abbraccio. Eppure, da quelle mura solitarie nacquero opere immortali: Rigoletto, Il Trovatore, La Traviata. La campagna si fece officina di genio, il silenzio si trasformò in voce universale. Busseto rimase sullo sfondo: amata e respinta, radice e ferita insieme.

Anche il cuore di Busseto conserva il segno di Giuseppe Verdi: la Rocca Pallavicino, oggi municipio, testimone di secoli medievali e rinascimentali, quando la città fu capitale di uno Stato piccolo ma influente, che lasciò tracce profonde nella cultura della pianura. Dentro la Rocca pulsa un gioiello ottocentesco: il Teatro Giuseppe Verdi, inaugurato nel 1868, piccolo, elegante, raffinato, scrigno di velluti e armonie. È ancora il cuore delle celebrazioni verdiane, dove festival e stagioni musicali rendono omaggio al cittadino più illustre.

Alla sua inaugurazione, le signore si vestirono di verde, i signori portarono coccarde dello stesso colore, ma il Maestro non partecipò, né mai mise piede in quel teatro. Per lui era un lusso inutile, un peso sulla comunità, ma più ancora lo teneva lontano il contrasto con i bussetani: sentiva l’invadenza nei suoi affetti, il giudizio severo sulla sua relazione con Giuseppina Strepponi, che infine sposò il 29 agosto 1859. La sua assenza fu un gesto eloquente: difendere la propria indipendenza, anche contro gli omaggi. Così il Teatro Verdi rimase un gioiello architettonico, ma anche simbolo di distanza. Il Maestro amava la sua terra, ma non piegava il cuore all’ipocrisia né all’orgoglio mal riposto. Il suo rifiuto non fu disprezzo per l’arte, ma atto di coerenza: ricordare che la musica nasce dal cuore, non dalle mura.

A Milano, Giuseppe Verdi visse le sue ultime ore. Nella notte sospesa tra il 26 e il 27 gennaio, alle 2:50 il suo respiro si spense e, con esso, tacque la musica che aveva dato voce al mondo. La stanza del Grand Hotel et de Milan, ancora oggi custodita come reliquia, è memoria viva di quell’addio silenzioso, del “cigno di Busseto” che trasformò il dolore e la vita in canto eterno.

 

Carlo V e Paolo III

Tre secoli prima, nel 1543, il borgo emiliano di Busseto, già intriso della grandezza dei Pallavicino, si trovò improvvisamente al centro della storia europea. Nella Rocca Pallavicino giunse Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, reduce da guerre e trattative che scuotevano il continente. Ad attenderlo, papa Paolo III Farnese, il pontefice che avrebbe convocato il Concilio di Trento per affrontare la frattura della Riforma. Fu un incontro solenne: per un giorno, la piccola capitale di un feudo divenne crocevia di potere e diplomazia e la Rocca si consacrò teatro di grandi decisioni.

La memoria di quell’evento vive ancora in una lapide cinquecentesca sulla facciata della Collegiata di San Bartolomeo Apostolo, posta decentrata dall’altro lato di piazza Verdi, le cui mura gotiche e barocche riflettono la storia di un borgo intero. Costruita nel Quattrocento, arricchita nei secoli, la collegiata custodisce tesori d’arte: gli affreschi dei Dottori della Chiesa di Michelangelo Anselmi ed altri, i quindici tondi dei Misteri del Rosario di Vincenzo Campi, intensi e narrativi, l’altare maggiore settecentesco di Giovan Battista Febbrari, antichi affreschi sulle colonne d’ingresso, un coro neoclassico e un tesoro che ancora oggi parla di fede e bellezza.

Ma la collegiata è anche legata al Maestro. Qui Verdi studiò sull’organo e qui, il 4 maggio 1836, in una cappella dell’Oratorio della Santissima Trinità, innalzato in continuità con la collegiata intorno al XIV secolo, si unì in matrimonio con Margherita Barezzi, figlia di Antonio, il suo grande sostenitore e quasi padre spirituale. Fu un’unione di speranza e di musica, destinata però a durare poco. La morte precoce di Margherita segnò profondamente la vita e l’arte di Verdi, lasciando nelle sue opere un’impronta di dolore e di forza, trasformata in canto universale.

 

Peppone e don Camillo

La collegiata è celebre anche per il crocifisso custodito nella prima navata a sinistra, quello che ispirò Julien Duvivier, regista della saga di “Peppone e don Camillo” il cui primo film uscì nelle sale il 15 marzo 1952.

Per girare il film e realizzare il “Crocifisso parlante” che dialoga con il prete burbero e generoso inventato da Giovannino Guareschi nel suo “Mondo piccolo”, Duvivier fece scolpire una copia sul modello di Busseto, in legno di cirmolo, leggero perché Fernandel non poteva reggere pesi. Le teste erano intercambiabili: Gesù poteva ridere, piangere o adirarsi, secondo i dialoghi con il prete. Dopo le riprese, la copia sembrò scomparsa, ma fu ritrovata in un magazzino di Cinecittà. I cittadini di Brescello, set della serie, vollero riportarla nella loro chiesa parrocchiale, dove oggi è restaurata e venerata, meta di preghiere e ceri accesi.

La serie, controversa per motivi politici, fu affidata al regista francese Duvivier, che modificò la sceneggiatura, scatenando l’ira di Guareschi. “Il mio pretone e il mio grosso sindaco li ha creati la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto”, diceva lo scrittore, che scelse di vivere l’ultima parte della sua vita accanto alla casa natale del Maestro Verdi, a Le Roncole di Busseto, oggi Roncole Verdi, “per stare all’ombra di un grande”.

Lì aprì il suo ristorante, oggi sede dell’Archivio Guareschi, curato con dedizione dal figlio Alberto, custode tenero della memoria paterna. Lo scrittore riposa nel piccolo cimitero di fronte, insieme alla moglie Ennia — la Margherita dei suoi racconti — e alla figlia Carlotta, la Pasionaria.

Il Museo Renata Tebaldi è dedicato al celebre soprano, la “voce d’angelo” della lirica italiana, custodisce abiti di scena, fotografie, registrazioni: memorie che raccontano una carriera luminosa, ponte ideale tra l’eredità di Verdi e la tradizione operistica del Novecento.

Santa Maria degli Angeli, chiesa e convento, si svela come un complesso di grande fascino: chiostri silenziosi, opere d’arte che tramandano storie popolari e vita monastica. Tra le navate gotiche, il dolore scolpito probabilmente da Guido Mazzoni prende forma: otto figure in terracotta piangono il Cristo morto, con volti intensi, umani, vibranti, come se il Quattrocento avesse voluto consegnarci un frammento di eternità.

Poco distante è il Museo Nazionale Giuseppe Verdi che propone un percorso storico basato sulle 27 opere del maestro.

 

Busseto è anche buon cibo

Busseto non è soltanto musica o letteratura: è anche tavola. Qui il culatello di Zibello DOP matura lentamente nelle nebbie, la coppa racconta la gioia della convivialità, il fiocchetto custodisce la delicatezza delle origini e il Parmigiano Reggiano si fa simbolo universale. In ogni trattoria, un bicchiere di lambrusco o di fortana accompagna i salumi, trasformando la visita in un vero concerto di sapori.

Lungo via Roma si trova la Salsamenteria Baratta, frequentata da Verdi e altri nomi illustri della cultura italiana, che mostra in vetrina uno spartito che non è solo decorazione, ma testimonianza viva della presenza verdiana. Il foglio musicale, ingiallito dal tempo, riporta le note di una delle opere più celebri di Verdi, “La Traviata”, composta nel 1853 e ambientata tra Parigi e la tragedia. Quel frammento è esposto accanto ad altri cimeli: medaglie, ritratti, onorificenze, strumenti musicali, tutti elementi che trasformano il locale in un piccolo santuario laico della cultura musicale. Alla Baratta, quel foglio diventa simbolo di un’Italia che non separa l’arte dalla vita quotidiana. È come se Violetta, Alfredo e Germont si sedessero a tavola con noi, tra un bicchiere di vino e una fetta di culatello.

Alla fine della visita, si comprende che Busseto non è solo un piccolo borgo, ma un mito che risuona tra note e nebbie, tra musica e cucina. Un luogo dove la cultura si assaggia, si legge, si ascolta, e dove ogni piatto diventa un’aria verdiana.

Un crocevia di arte, storia e mito, dove la musica incontra la campagna emiliana e ogni pietra racconta un frammento di Italia.

 

Riccardo Agresti

MICHELINANGELO VERSO LA TERZA GIOVINEZZA. L’eclettico artigiano Canalese ha compiuto 80 anni.

Ci sono persone che rappresentano un territorio divenendone parte inscindibile, come il campanile della chiesa, un fiume o un monumento, una leggenda antica o uno scorcio che ne tratteggia i confini.

Michele Fontana, classe 1945, a Canale è iconografia di estro e bizzarria, di tempra e simpatia, polivalenza e costanza, altruismo e ironia.

Ottant’anni di una vita declinata nei valori più alti per un uomo: la dedizione al lavoro; da artigiano imbianchino ha saputo gradualmente trascendere a maestro d’arte, scenografo e artista. L’amore incondizionato per la sua famiglia, marito e padre mai stanco, mai assente, mai troppo lontano nonostante per Michele le distanze, soprattutto quelle dalla banalità, non sono mai state quelle convenzionali.

L’attaccamento forte al paese che gli ha dato i natali e alle sue tradizioni; Michelino, così lo conoscono tutti, ha alimentato lo spirito folcloristico incarnando l’essenza stessa di ogni festa, a cui ha prestato la voce e il cuore, l’opera e l’inventiva.

La sua partecipazione attiva è passata attraverso le critiche e gli apprezzamenti senza mai flettere o deprimersi, noncurante dei commenti, dei giudizi, più forte di qualunque incentivo o detrazione.

Il sorriso e la grinta di Michelino sono state le maschere di un volto autentico di cui l’intera comunità deve andare orgogliosa; il suo entusiasmo mai fiaccato, lo ha visto attivo nella chiesa, membro della Confraternita e mano d’opera magica parrocchiale, ma anche nella locale pro loco, garante della tradizione e propulsore dell’innovazione.

La sua vulcanica energia ideativa, lo ha visto organizzatore di feste patronali, sfilate e carri di carnevale, manifestazioni sportive, premiazioni, sfilate; inventore e creatore di vere e proprie opere d’ingegno, trasformazioni e adattamenti, decorazioni e realizzazioni che hanno contribuito ad arricchire il patrimonio folcloristico della comunità, ha indossato costumi, interpretato personaggi, rivisitato epoche e periodi storici sempre rimanendo se stesso.

Col tempo è trasmutato in Michelinangelo, soprannome autoironico con cui ha firmato veri e propri capolavori di scultura, come un presepe interamente scolpito nel legno massello, riproducente l’antico abitato di Monterano, l’eremo di Montevirginio e le Terme di Stigliano, ma anche pittore e decoratore eccellente, dotato di una manualità che fusa all’inventiva ne fanno un artista poliedrico e talentuoso.

Nessuno che non lo sappia, direbbe che oggi ha compiuto 80 anni ma l’energia che lo anima obbedisce a logiche diverse e ribelli per cui sappiamo che ha soltanto traguardato la linea della terza giovinezza, quella che gli consentirà di darci tanto ancora. L’agone, attento custode delle preziosità del territorio, riconoscendoti il merito dell’autenticità, ti augura buon compleanno Michelinangelo.

Gianluca Di Pietrantonio,  redattore L’agone

 

Tarquinia sostiene lo sport, domande di contributo entro il 15 dicembre 2025

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Le associazioni sportive di Tarquinia, iscritte all’albo comunale, potranno presentare all’Amministrazione la richiesta di contributo per l’anno sportivo 2025 entro il 15 dicembre. “Rinnoviamo il nostro sostegno alle realtà sportive del territorio – dichiara l’assessore allo Sport Sandro Celli –.

Le associazioni svolgono un ruolo fondamentale per la crescita sociale e educativa dei nostri giovani. Invito tutte le società iscritte all’albo comunale a presentare la richiesta di contributo entro i termini, così da poter usufruire dei fondi”.

Le domande andranno compilate sui moduli scaricabili dal sito istituzionale del Comune di Tarquinia e dovranno essere portate al protocollo, in piazza Giacomo Matteotti 6, o inviate per email a comune.tarquinia@comune.tarquinia.vt.it o per Pec a pec@pec.comune.tarquinia.vt.it.

Tarquinia in festa, la Parata di Natale illumina le vie del centro storico

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L’8 e il 23 dicembre 2025, alle 17, il corteo natalizio tra musica, luci e intrattenimento

Tarquinia si accende di magia con la Parata di Natale. L’8 e il 23 dicembre 2025, un grande corteo colorerà le vie del centro storico, portando in città la suggestione e il calore delle festività natalizie. L’iniziativa è promossa dall’Amministrazione comunale e dalla Pro Loco Tarquinia, con il patrocinio della Regione Lazio e la collaborazione del gruppo di volontari “Troppo forti”.

La sfilata partirà alle 17 da piazzale Europa per attraversare via Umberto I, piazza Cavour, corso Vittorio Emanuele e raggiungere piazza Giacomo Matteotti, dove il pubblico potrà assistere a momenti di spettacolo dedicati a famiglie, bambini e visitatori. Sotto il palazzo comunale, la festa sarà animata da musica e intrattenimento, mentre per i più golosi non mancheranno zucchero filato e caldarroste, contribuendo a creare una cornice accogliente e suggestiva nel cuore della città.

L’8 dicembre rappresenterà il momento più atteso: la banda “Giacomo Setaccioli” accompagnerà il corteo eseguendo i più celebri brani natalizi e farà da preludio alla cerimonia di accensione delle luminarie a piazza Cavour, evento simbolico che inaugurerà ufficialmente il programma delle manifestazioni di Natale organizzate dal Comune insieme alle realtà associative del territorio. L’Amministrazione invita scuole, associazioni sportive e culturali, gruppi organizzati e tutte le persone che voglio vivere appieno il clima di festa a partecipare, contribuendo all’atmosfera dell’evento con un accessorio o un dettaglio a tema natalizio.

Per informazioni è possibile chiamare il 328 4779377 o il 347 6032913.

Mtb Santa Marinella in gran bella evidenza sugli sterrati di Tarquinia, Rocca di Papa e Pontassieve

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Gli atleti della Mtb Santa Marinella hanno fatto registrare risultati positivi in tre distinte competizioni di ciclocross.

Alla seconda prova del Lazio Cross – Trofeo Romano Scotti, disputata a Tarquinia Lido nella località Mandrione delle Saline, Claudio Albanese si è messo in luce con un terzo posto nella categoria Master 7. Grazie a questo piazzamento, la Mtb Santa Marinella occupa attualmente la settima posizione nella classifica società del circuito dopo due prove.

In occasione della 39ª edizione del Roma Master Cross, svoltasi al Parco La Pompa di Rocca di Papa, il miglior risultato è stato di Angelo Ciancarini, che ha conquistato il primato tra i master 8. Ottime anche le prestazioni di Federico Forti (3° M4), Giuseppe Calò (3° M5), Paolo Tempestini (2° M6), Marco Deciano (4° M6), Daniele Bagnoli (5° M6), Mauro Gori (3° M7) e Walter De Leonardi (9° M7).

A Pontassieve, in Toscana, si è corsa la quarta tappa del Trofeo Florence Supercross al Parco Fluviale (circuito UISP Firenze) dove Andrea Mainardi si è classificato in tredicesima posizione nella categoria master 6.

Inaugurazione mostra e mercato di beneficienza dei Templari di Bracciano

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Augusto Fenili, Magister Generale dei TEMPLARI cattolici d’Italia, con una Comanderia a Bracciano e un museo dei TEMPLARI a Viterbo comunica che il 7 e 8 dicembre alle ore 10.30 sara inaugurata una piccola mostra e mercatino di beneficenza al chiostro degli Agostiniani.

 

“LE DONNE E L’ARMI”: il calendario storico 2026 che racconta l’orgoglio delle donne

Nella meravigliosa sala Drappelle della caserma Cosenz di Bracciano, è stato presentato questa mattina, sabato 22 novembre, il calendario 2026 proposto dall’Associazione Amici della Scuola d’Artiglieria: tema di quest’anno “Le donne e l’armi”.

Forse non è un caso, perché non ci piace credervi, che la presentazione sia fatta a pochi giorni dalla celebrazione della Giornata internazionale contro ogni violenza sulle donne.

A fare gli onori di casa è stato il generale Nicola Tauro che con il cerimoniale del militare e il garbo del gentiluomo, ha concesso a L’agone, presente alla presentazione con il suo presidente Giovanni Furgiuele e il direttore, una succinta ma esaustiva dichiarazione.

“Confido che la stampa presente riesca a cogliere il senso profondo e l’alto significato, che da individui con il timbro e il rigore militare, ma armati solo di sensibilità, abbiamo voluto conferire alla figura femminile nella Storia”. Un uomo tutto d’un pezzo il generale Tauro, di cui ci è rimasta la simpatia e il sorriso, coniugati armoniosamente con un grande senso del rigore e della grande cura con cui ha preparato l’evento, che ha moderato personalmente.

Il tema del calendario ripercorre il lungo itinerario delle donne dall’antichità al giorno d’oggi. Gli interventi che si sono succeduti sono stati di alto profilo culturale, introdotti dal generale Giorgio Zucchetti, che ha ricordato come la Storia sia fatta di cose minime, facendo riferimento a episodi quasi sempre sconosciuti ai più, in cui il coraggio delle donne ha contribuito a salvare le loro case, i loro figli e la loro patria.

Lo ha seguito l’intervento della prof.ssa Laura Bellanova, che ha ripercorso la figura della donna nel mito e nell’arte. Ha parlato delle amazzoni, riconoscendole come l’archetipo della contraddizione che diventa equilibrio, insegnandoci che si può governare in un altro modo. Nel mito la donna è talvolta rappresentata come potenza distruttrice, quando viene colpita nella sua profondità generatrice: è l’esempio di Medea e Clitennestra.

Ha ricordato, poi, il coraggio di Pantasilea, che combattendo con Achille, con la consapevolezza che sarebbe stata sopraffatta, ci ricorda come la forza della bellezza è in grado di sconfiggere la guerra e persino la morte. Ha parlato di Atena, la professoressa, ricordando che era sì era la dea della strategia militare ma anche dell’intelletto.

In una bellissima ricostruzione letteraria, mitologica e artistica ha sottolineato come nella donna il coraggio da sempre coesiste con il dubbio, e ha usato la violenza solo quando è stata costretta a farlo, pur ponendosi scrupoli e tormenti, perché la sua natura è di cura, amorevolezza e dedizione.

Nella relazione del generale Coltrinari si sono ricordate le condottiere, donne in armi che hanno lottato per il loro paese, cui ha fatto eco nell’intervento successivo la prof.ssa Annamaria Casavola, parlando delle partigiane: donne, grazie al cui valore, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 1 febbraio 1945, è stato riconosciuto il diritto di votare e di essere elette.

Ha citato Tina Anselmi, la prof.ssa Casavola: “noi odiavamo la morte ma eravamo pronte a prendere le armi per difendere la vita”. L’ultimo intervento ha coniugato la storia con l’attualità, interpretando un ponte tra passato e presente. Il capitano medico dell’Aeronautica Militare Rossella Viscito ha commosso l’uditorio raccontandosi, accennando a due giuramenti e due divise, che ha deciso di fare e di indossare non privandosi del ruolo di madre e di moglie; seguendo il modello paterno ha dichiarato di aver scelto l’uniforme simbolo di rinuncia, orgoglio e degnità.

Interessanti anche gli interventi del prof. Crociani, che ha analizzato la figura femminile nel risorgimento e nelle prima e seconda guerra mondiale, così come l’intervento della prof.ssa Pasqualini che ha esplorato il ruolo delle donne nell’intelligence e gli aspetti del servizio militare femminile in Italia: notevole anche l’approfondimento di sorella Emilia Bruna Scarsella sulle Crocerossine, il cui motto è “ama, conforta, lavora, salva”.

Uniforme è sinonimo di determinazione, lealtà, senso del dovere, specificando che dietro a ognuno di questi valori ci sono mondi complessi fatti di sfide quotidiane e ricordando che la motivazione è l’unica arma per combattere queste sfide.

Da medico ha ricordato che non esiste medicina migliore della gentilezza e che chi ama davvero non trattiene ma consente di volare. Rivolgendosi a tutte le donne ha concluso: “Non abbassate mai il carrello di atterraggio finchè la meta non sarà raggiunta; per molti il cielo è un limite, per pochi che vogliono volare è casa”.

Non è stato un gesto come tanti, quello di riceve il calendario; prendendolo in mano, abbiamo sentito tutto il peso del sacrificio e del valore di milioni di donne a cui dobbiamo un silenzioso ringraziamento.

Ludovica Di Pietrantonio, direttore de L’agone

Gianluca Di Pietrantonio, redattore L’agone

 

Si rinnova il Trevignano FilmFest: la prima giornata tra memoria e ricordi

Nonostante i dubbi e le incertezze che fino a pochi mesi fa circondavano la realizzazione dell’edizione del festival del 2025, ecco che a fine novembre è stata inaugurata la 14° edizione del Trevignano FilmFest, che si sta svolgendo presso la consueta location del Cinema Palma di Trevignano Romano.

“Anni Luce” è il nome scelto per la rassegna di quest’anno. Al centro è proprio il centenario della fondazione dell’Istituto Luce, che tutt’ora riveste un ruolo fondamentale nel panorama cinematografico italiano e non solo, grazie al suo immenso archivio.

Ad aprire la manifestazione ci hanno pensato Corrado Giustiniani, presidente del Trevignano FilmFest, nonché giornalista freelance presso testate come L’Espresso e Il Fatto Quotidiano, e Fabio Ferzetti, direttore artistico del festival.

Il primo ha tenuto a ricordare come la kermesse che si svolge con continuità a Trevignano da ormai 14 anni, e che nemmeno il covid è riuscita a spezzare (ha raccontato come il cinema avesse anche provveduto in quell’occasione a fornire ai partecipanti delle speciali mascherine a tema), è considerato dal Ministro della Cultura come la 5° rassegna per importanza, tra le più di 100 in tutta Italia.

Ferzetti, tra le altre cose giornalista e critico cinematografico per Il Messaggero, ha illustrato il programma della tre giorni nella quale si svolgerà il FilmFest (dal 21 al 23 novembre, ed ha illustrati il tema principe di quest’anno: la memoria. Anche la sindaca di Trevignano Romano Claudia Maciucchi è intervenuta, oltre che per ribadire i punti precedenti, per ringraziare i proprietari del Cinema Palma.

Fabio e suo figlio Francesco rappresentano ,rispettivamente, la terza e la quarta generazione di proprietari del cinema, che ha spento quest’anno 85 candeline. La famiglia ha infatti avuto il grande merito di rendere il paese del lago un luogo di cinema; il ché ha un grande valore, soprattutto in un periodo non facile per i cinema italiani e non solo.

Il direttore Fabio Ferzetti ha inoltre ricordato lo stretto legame che unisce il cinema di Trevignano e Vigna di Valle: è infatti grazie alle tecnologie di quest’ultima che l’allora falegname Fabio Palma (nonno dell’omonimo proprietario) riesce ad aprire il cinema negli anni ’30.

E proprio Vigna di Valle è al centro della prima proiezione della giornata: un documentario del 1931, allora muto ma restaurato e dotato di suono dall’Istituto Luce, che mostra la partenza dell’idrovolante Umberto Maddalena, che da Bracciano arriva fino a Napoli.

Ad intervenire è stato quindi il colonnello dell’aereonautica Dario Bovino, che ricollegandosi al tema della memoria, ha voluto ricordare come questa sia ancora esplorabile materialmente presso il Museo Storico dell’Aereonautica di Vigna di Valle.

Subito dopo è stato il turno di “Miracolo italiano” e “Progetto panico”, due corti diretti dai registi Giovanni Piperno e Paola Randi. Questi sono due degli episodi che vanno a comporre “9×10 Novanta”, un progetto realizzato per commemorare i 90 anni dell’Istituto Luce.

A sostegno dei due registi, a dialogare con il pubblico presente ci ha pensato Enrico Bufalini, attuale direttore dell’archivio storico dell’Istituto. Bufalini ha infatti spiegato la composizione dell’archivio (circa 100.000 pellicole con 8000 ore di filmati), nonché la sua storia. Interessante il fatto che questo sia stato uno dei primi ad essere digitalizzato nell’ormai lontano 2001, ancora preistoria dell’internet.

I due lungometraggi che hanno concluso la prima giornata sono stati “La macchina delle immagini di Alfredo C.”, del regista italo-albanese Roland Sejko, e “100 di questi anni”, dei registi Michela Andreozzi, Massimiliano Bruno, Claudia Gerini, Edoardo Leo, Francesca Mazzoleni, Rocco Papaleo e Sidney Sibilla. Ad intervenire a fine proiezione con il pubblico sono stati Roland Sejko e Francesca Mazzoleni, i quali si sono prestati alle diverse domande pervenute dai presenti.

L’appuntamento è quindi per sabato 22 novembre, dove ad essere proiettati saranno ben 3 lungometraggi.

Davide Catena, redattore L’agone

 

Trevignano                      Trevignano

 

Trevignano

Benedizione del campanile restaurato di Santa Maria Maggiore a Cerveteri. 23 novembre 2025

Riceviamo e pubblichiamo

La parrocchia di Santa Maria Maggiore di Cerveteri si prepara a un momento di grande significato spirituale e culturale: domenica 23 novembre saranno nuovamente sciolte le campane dopo il completamento dei lavori di restauro e messa in sicurezza del campanile. La data scelta non è casuale: coincide con la solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, giornata che conclude l’anno liturgico e nella quale la diocesi di Porto-Santa Rufina celebra il raduno dei cori diocesani.
Due eventi, dunque, che si intrecciano e faranno della storica parrocchia guidata da don Gianni Sangiorgio il centro di una vera e propria “festa del suono”: quello delle campane, che richiama alla preghiera, e quello della musica liturgica, che innalza la lode a Dio attraverso il canto della Chiesa.
Il programma della giornata prevede alle ore 16 l’accoglienza dei cori partecipanti, seguita alle 16.30 dalla benedizione del campanile restaurato. A seguire sarà celebrata la Messa presieduta dal vescovo Gianrico Ruzza. In serata le formazioni coristiche proporranno i propri brani musicali.
Il restauro ha riguardato il consolidamento strutturale del campanile e l’intero apparato necessario al funzionamento delle campane. È stato realizzato un cerchiaggio interno con tiranti e travi in acciaio, un nuovo vano scale con pianerottoli e un nuovo castello campanario. Le opere edili hanno incluso la pulitura delle superfici interne ed esterne, il reintegro delle parti in cotto mancanti, l’applicazione di converse in piombo e il consolidamento degli intonaci antichi tramite iniezioni, successivamente tinteggiati e rifiniti. È stato inoltre effettuato il rimaneggiamento delle tegole della copertura e installata una nuova ventolina.
«È il secondo intervento conservativo che in pochi anni la diocesi di Porto-Santa Rufina ha messo in atto nel centro storico di Cerveteri: prima la messa in sicurezza della torre e ora il restauro del campanile di Santa Maria Maggiore. Un lavoro complesso e importante, voluto dal vescovo Gianrico Ruzza e realizzato grazie al contributo di numerose professionalità», dichiara Egildo Spada, economo e incaricato dei beni culturali ecclesiastici della diocesi di Porto-Santa Rufina.
L’opera, dal costo complessivo di circa 200mila euro, è stata finanziata grazie ai fondi dell’8xmille della Chiesa cattolica destinati ai beni culturali ecclesiastici. Di questa somma la diocesi ha coperto oltre 120mila euro provenienti dai fondi per il culto e la pastorale, mentre la parte restante è stata a carico della Conferenza Episcopale Italiana.
«La bellezza recuperata del campanile viene restituita alla cittadinanza, che potrà nuovamente goderne.
Il suono delle campane sarà un invito a rinsaldare l’identità culturale e religiosa della comunità», aggiunge Spada, sottolineando che «i fondi dell’8xmille destinati dai cittadini alla Chiesa cattolica ritornano alla collettività a vantaggio del bene comune e della custodia del patrimonio artistico, culturale e spirituale».
La parrocchia di Santa Maria maggiore è a Cerveteri in piazza Santa Maria, 14.
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Agricoltura – Stefano Augugliaro (Agriturist Lazio): “Su diversificazione, multifunzionalità e multimprenditorialità la Regione Lazio è un modello da esportare”

Riceviamo e pubblichiamo

Si è chiusa a Palazzo Della Valle la due giorni di eventi promossa da Agriturist Lazio, con il contributo di Arsial e Regione Lazio, inerente le celebrazioni del sessantesimo anniversario dalla fondazione dell’associazione degli agriturismi italiani.

Il Forum “La Nuova Diversificazione in Agricoltura e l’Integrazione dei Servizi e dei Prodotti” con cui si sono aperti i lavori lo scorso 18 novembre presso la struttura del Borgo Pallavicini Mori di Roma, è stata occasione per approfondire i principali temi di interesse per le aziende e gli operatori del settore.

Un confronto che ha visto partecipare durante tutti i panel ed i tavoli di lavoro di entrambe le giornate i rappresentanti istituzionali di Roma Capitale, Regione Lazio e Parlamento. Si sono registrati infatti gli interventi del Sen. Giorgio Salvitti, Consulente del Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, l’On. Paola De Micheli, l’Assessore ad Agricoltura e Bilancio della Regione Lazio Giancarlo Righini e l’Assessore all’Agricoltura di Roma Capitale Sabrina Alfonsi, oltre che tutti i massimi dirigenti di Confagricoltura, a partire dal Presidente Nazionale Massimiliano Giansanti ed il Presidente di Agriturist Italia Augusto Congionti.

Al centro del dibattito la diversificazione in agricoltura, la multifunzionalità delle aziende agricole e la multimprenditorialità all’interno delle imprese stesse. Sfide che attendono un settore come quello agrituristico dalle grandi potenzialità, che tuttavia per aumentare la propria competitività necessità di integrarsi in primo luogo con le nuove tecnologie digitali, prima tra tutte l’intelligenza artificiale, conservando la sua identità, che fa della qualità, della sostenibilità e della socialità, un tratto distintivo.

Un particolare focus è stato inoltre dedicato all’agricoltura sociale, a dieci anni dal varo della legge 141 del 2015, per sottolineare quanto sia importante implementare la dotazione finanziaria a sostegno di un settore dal forte valore sociale.

“Agriturist nasce proprio qui nel Lazio dichiara il Presidente di Agriturist Lazio Stefano Augugliaro – dall’intuizione di chi comprese quanto l’uomo avesse l’esigenza di riappropriarsi del suo tempo e del suo spazio, tornando dalla città alla campagna.

Oggi che il turismo sostenibile si prevede possa triplicare il suo fatturato, è necessario interrogarsi su come affrontare al meglio le sfide della modernità, prestando particolare attenzione al valore sociale del comparto dell’agricoltura sociale in termini di inclusione e valorizzazione della persona umana. Restare agganciati alla domanda, utilizzando anche la tecnologia, integrare e diversificare l’offerta, sono punti a cui stiamo lavorando confrontandoci con le istituzioni.

Proprio sulla diversificazione la Regione Lazio, grazie all’attenzione dimostrata dall’Assessore Giancarlo Righini, rappresenta un’avanguardia positiva, un modello che intendiamo far conoscere per essere esportato come buona pratica anche in altre regioni”.

Andrea Titti