11 Dicembre, 2025
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Storia del calendario: da Romolo a Gregorio XIII

Le calendae

Il termine “calendario” deriva dal latino calendae: forse di origine etrusca, forse con il significato di “colui che deve essere chiamato”. Nella antica Roma, le calendae erano infatti il primo giorno del mese, quando i pontefici si riunivano nella Curia Calabra, probabilmente situata sul Campidoglio, per proclamare le festività mobili del mese successivo e ricordare ai debitori le scadenze dei pagamenti. Quindi il calendario non era soltanto un elenco di giorni, ma un vero e proprio libro di conti, una memoria scritta che custodiva il ritmo della vita quotidiana, con le sue celebrazioni e le sue scadenze.

 

Romolo

Il primo calendario utilizzato nell’antica Roma fu probabilmente quello attribuito a Romolo, e si basava sulle fasi della Luna.

Un dettaglio curioso: la parola mese (mensis in latino) deriva dal termine greco μήνη, che significa proprio “Luna”. Eppure, nonostante questa origine, il nostro satellite naturale non compare mai in alcun presepe.

In quel calendario, l’anno iniziava a marzo, nel momento del rifiorire della natura, e contava 304 giorni. I circa 61 giorni invernali non venivano registrati né assegnati a un mese: erano considerati un tempo “vuoto”, perché i campi non si lavoravano e dunque la misurazione del tempo risultava inutile. In altre parole, non si contava il tempo che non serviva.

 

Numa Pompilio

Nel 713 a.C., Numa Pompilio cercò di armonizzare l’anno lunare con quello solare. Per farlo aggiunse i due mesi mancanti nel periodo invernale, mantenendo marzo come primo mese dell’anno. In questo modo tentò di ridurre la discrepanza tra i cicli del Sole e della Luna.

La soluzione prevedeva che, circa ogni due anni, i pontefici massimi introducessero, subito dopo le feste di fine febbraio, i Terminalia, alcuni giorni appartenenti a un tredicesimo mese, chiamato Intercalans (intercalare) o Mercedonius (della paga).

Queste regole avrebbero potuto garantire una buona precisione, se non fosse stato per l’intervento umano: i pontefici, responsabili della gestione del calendario, talvolta per scarsa conoscenza, talvolta per motivi politici o economici, finirono per allungare o accorciare l’anno a loro piacimento, trasformando la misura del tempo in uno strumento arbitrario.

Ce lo racconta Gaius Suetonius Tranquillus nel suo “De vita Caesarum”:

“Già da tempo, per colpa dei pontefici – mediante l’abuso di inserire giorni intercalari – era talmente scompigliato, che il tempo della mietitura non cadeva più in estate e quello della vendemmia non più in autunno.” (Divus Julius, 40).

 

Gaio Giulio Cesare

Per riportare i mesi al ritmo naturale delle stagioni, l’astronomo egizio Sosigene di Alessandria, insieme a Gaio Giulio Cesare in qualità di pontefice massimo, riformò il calendario. Nacque così il “calendario giuliano”, istituito il 1º gennaio del 45 a.C. (anno 708 ab Urbe Condita, cioè: dalla fondazione di Roma).

La durata dell’anno fu fissata in 365 giorni, con l’accorgimento di aggiungere un giorno extra ogni quattro anni. L’inizio dell’anno rimase il 1º gennaio, come già stabilito dalla Lex Acilia de intercalatione.

Per rendere possibile questa riforma, il 46 a.C. fu trasformato in un anno eccezionale: l’annus confusionis ultimus (l’ultimo anno di confusione), che durò ben 445 giorni. In questo modo il 25 dicembre venne a coincidere con il solstizio d’inverno.

L’anno con il giorno aggiuntivo a fine febbraio è chiamato ancora oggi bisestile. Il termine deriva da bisesto, cioè “bis sextus (ante) Kalendas Martias”: il giorno intercalato tra il sesto e il quinto giorno prima delle calende di marzo, ossia tra il 24 e il 25 febbraio. In pratica, si aveva un “24 bis”.

Quel giorno era proprio: “un altro sesto giorno prima delle calende” perché i Romani contavano i giorni a ritroso, come in un vero e proprio countdown, verso la data indicata, in questo caso, le calende di marzo.

 

Precessione degli equinozi

Per quanto il calendario giuliano fosse il più avanzato dell’Occidente, non era del tutto preciso. Con il passare dei secoli, infatti, i giorni degli equinozi e dei solstizi, e quindi l’inizio delle stagioni, tendevano ad anticipare.

La causa stava nell’approssimazione con cui l’astronomo Sosigene di Alessandria aveva calcolato la durata dell’anno tropico (il tempo che la Terra impiega per compiere una rivoluzione intorno al Sole). Oggi sappiamo che un anno terrestre dura circa 365,242189670 giorni (365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46,98 secondi), mentre Sosigene lo aveva stimato in 365 giorni e 6 ore. Un’ottima approssimazione, certo, ma non perfetta: quella piccola differenza, poco più di 11 minuti all’anno, provocava lo slittamento delle stagioni con un anticipo degli equinozi e dei solstizi di un giorno ogni 128 anni.

Senza una correzione, la primavera avrebbe finito per iniziare in febbraio e l’inverno in novembre e Durante di Alighiero degli Alighieri, meglio conosciuto come Dante Alighieri, ne fece cenno nella sua “Divina Commedia”:

 

“Ma prima che gennaio tutto si sverni

per la centesma ch’è là giù negletta

(Paradiso, XXVII, 142-143)

 

cioè, con il passare dei secoli, senza tener conto (negletta) della eccedenza (centesma) temporale del calendario, si finirà col far uscire dall’inverno (tutto si sverni) persino il mese di gennaio cosicché, prima o poi, il primo giorno di gennaio coinciderà con l’inizio della primavera.

 

Pasqua

Al di là del problema dello slittamento delle stagioni, il Concilio di Nicea del 325 aveva stabilito una regola fondamentale: la Pasqua doveva essere celebrata sempre di domenica, precisamente la prima domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera.

Per rendere stabile questa ricorrenza, si decise che l’equinozio di primavera dovesse cadere sempre il 21 marzo, data in cui effettivamente si verificava l’equinozio nell’anno del concilio.

Tuttavia, a causa dell’approssimazione del calendario giuliano nella misurazione della durata dell’anno, gli equinozi e i solstizi continuarono lentamente ad anticipare, mostrando ancora una volta i limiti di quel sistema.

 

Gregorio XIII

Con il passare dei secoli, il solstizio d’inverno, che all’inizio dell’uso del calendario giuliano cadeva il 25 dicembre, si era progressivamente spostato in avanti, accumulando, dal Concilio di Nicea in poi, un anticipo di ben dieci giorni.

Per risolvere il problema intervenne Ugo Boncompagni, per gli amici papa Gregorio XIII, che, il 24 febbraio 1582, da villa Mondragone a Frascati, emanò la celebre bolla Inter gravissimas. Con essa l’equinozio di primavera fu riportato al 21 marzo, come stabilito dal Concilio di Nicea e, per ottenere questo risultato, si cancellarono letteralmente dieci giorni dal calendario: al giovedì 4 ottobre 1582 seguì direttamente il venerdì 15 ottobre. I giorni dal 5 al 14 ottobre di quell’anno non sono mai esistiti!

La struttura del calendario giuliano fu mantenuta, con anni di 365 giorni e un anno bisestile ogni quattro. Ovviamente, il semplice recupero dei dieci giorni non bastava: la discrepanza con l’anno tropico rimaneva. Per ridurla, la bolla introdusse una correzione alla regola del calendario giuliano: non tutti gli anni multipli di 100 sarebbero stati bisestili, ma solo quelli multipli di 400. Così, 1700, 1800 e 1900 non furono bisestili, mentre 1600 e 2000 lo sono stati.

 

“Annus quoque cuius numerus quarto quoque anno exacte dividi potest, die uno ultra vigesimum octavum diem Februarii augeatur. Exceptis annis centesimis, qui non sunt bissextiles, nisi primus eorum numerus quaterno exacte dividi poterit.”

 

Grazie a questa riforma, il calendario gregoriano, che utilizziamo ancora oggi, è più preciso: l’anno civile risulta mediamente più lungo dell’anno tropico non di undici minuti, come nel giuliano, ma di soli ventisei secondi. Per molti secoli ancora, dunque, la primavera continuerà a iniziare intorno al 21 marzo.

 

Riccardo Agresti

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