16 Aprile, 2024
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Morto Kirk Douglas, ha lavorato con tutti i più grandi, da Kubrick in giù

È morto con Kirk Douglas l’uomo senza paura di quasi 90 film, un metro e 80 della Hollywood dei sogni. Ed anche il patriarca della dinastia con la fossetta nel mento: se egli vinse solo un Oscar alla carriera nel ‘96, dopo averlo perso per tre volte (tanto che la seconda moglie Anne gliene regalò uno falso), il figlio Michael (gli altri sono Eric, Joel e Peter), a sua volta attore e produttore, ha legato la fama a «Un giorno di ordinaria follia», «Wall street», «Basic instinct». Douglas, con i suoi caratteri ambiziosi e tormentati, è l’esempio classico del “self made actor”, ha servito a tavola per mantenersi agli studi; ha lottato, non solo metaforicamente, prima di affrontare lo show business, cominciando dalla radio e dal teatro (se ne sentiranno gli echi in «Il lutto si addice ad Elettra» di O’Neill e «Zoo di vetro» di Williams). All’anagrafe risultava Issur Danielovitch Demsky, nato ad Amsterdam (New York) il 9 dicembre 1916 da una famiglia poverissima di emigrati ebrei russi, in cui il papà straccivendolo doveva sfamare 7 figli. Altro che cinema. Il peso delle origini (e la riscoperta, in vecchiaia, dopo un pauroso incidente, della fede in Mosè e nella Torah) gli ha fatto inaugurare, nel secondo tempo della sua vita, il lavoro creativo dello scrittore, con un libro di memorie («Il figlio del venditore di stracci») e altri romanzi («The devil’s dance», «The gift», «Last tango in Brooklyn», editi da Sperling & Kupfer. Nei libri trasferisce giusti dubbi, rivendicando le mezze tinte di alcuni suoi personaggi non sempre senza macchia e senza paura. Anzi. Così come rivendica impegni sociali, ideologici ed ecologici contro la guerra e i razzismi di ogni ordine e grado. Nel ‘69, diretto da Elia Kazan, recitò il pubblicitario in crisi del «Compromesso», titolo doppiamente biografico in cui sono riassunti i dilemmi esistenziali dell’America ‘70. Ma per la gente Douglas è l’eroe che, in cinemascope e technicolor, lotta contro il mondo intero e spesso soccombe, un ruolo in cui l’attore mette un tocco di moderna ironia: il fiocinatore di «20.000 leghe sotto i mari» di Verne più Disney e il guerriero vichingo Einat cui cavano un occhio, mentre Van Gogh si tagliava l’orecchio, in «Un magnifico ceffo da galera» aveva una gamba sola e nell’«Uomo senza paura» era pieno di cicatrici: sadomasochismi e pene del contrappasso cinematografico. E’ Ulisse nel ‘54 per Camerini con una doppia Mangano (Circe e Penelope), primi tempi della Hollywood sul Tevere; e poi Spartacus (fu l’unico a girare con Kubrick due coraggiosi capolavori), che interpretò, produsse e protesse dagli attacchi isterici della Hollywood della caccia alle streghe, difendendo la sceneggiatura di Dalton Trumbo, nome della “black list” in odor di comunismo, ma licenziando Anthony Mann, che aveva iniziato le riprese. Ha parlato di cinema, col cinema, in compagnia del suo regista di fiducia Minnelli, che lo colorò con le migliori tinte del melodramma «fiction to fiction» nel «Bruto e la bella» e in «Due settimane in un’altra città», dove è un attore sul viale del tramonto a Roma.

 

Fonte: Il corriere della sera

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