Ha fatto molto discutere nelle ultime settimane lo scandalo che ha coinvolto la società di consulenza finanziaria Deloitte, colpevole di aver prodotto per il governo australiano un rapporto contenente citazioni e riferimenti bibliografici inventati, generati da un modello di intelligenza artificiale.
Ad accorgersi dei riferimenti e delle fonti inesistenti è stato Chris Rudge, ricercatore dell’università di Sydney, che ha successivamente deciso di segnalare l’accaduto. Il documento, dal valore di circa 290.000 dollari americani, conteneva riferimenti a libri inventati e la falsa citazione di un giudice federale.
Nonostante l’assunzione di colpa da parte dell’azienda e la conferma di aver utilizzato una piattaforma che adotta modelli linguistici generativi, la vicenda ha sollevato forti polemiche. In particolare, si è espressa riguardo all’accaduto la senatrice australiana Barbara Pocock, dichiarando l’utilizzo dell’intelligenza artificiale “scorretto e inappropriato” e sostenendo che Deloitte avrebbe dovuto rimborsare l’intero importo del contratto.
Tale evento ci costringe a riflettere per l’ennesima volta sull’utilizzo che viene fatto dell’intelligenza artificiale, indipendentemente dalla grandezza degli ecosistemi all’interno dei quali viene utilizzata: che sia per una semplice ricerca personale o al fine di calcolare la traiettoria della prossima astronave che lanceremo su Marte. Bisogna abbattere la barriera della superficialità che la società – e noi in quanto membri di essa – stiamo costruendo. Prima che si arrivi a un irreversibile isolamento della personalità, va mantenuto all’avanguardia il ponte tra realtà e finzione, quello stesso ponte che un utilizzo improprio della tecnologia rischia di danneggiare.
Sembra assurdo, ma il dilemma che riguarda l’intelligenza artificiale si riduce a una domanda molto semplice: vogliamo farne un uso etico o un abuso economico?
Denis Andrei Mihut


