Nel silenzio profondo del presepe, dove pastori assonnati e venditori indaffarati sembrano sospendere il fiato davanti al mistero che sta per nascere, c’è una figura che pare venire da un altro mondo, sfidando la logica della rappresentazione presepiale. Non porta frutti, né pesce, né pani. Non danza, non canta, non vende. Eppure, più degli altri, sembra sapere.
È la Sibilla Cumana, la veggente che custodisce il filo del destino, la donna che parla la lingua del futuro.
A prima vista, la sua presenza potrebbe sembrare un errore, un intruso in quell’universo di grotte, lucerne e pastori. Ma basta soffermarsi un istante, guardarla mentre si curva nella sua grotta d’ombra, per comprendere che lei appartiene a quel presepe più di chiunque altro. È il ponte tra la profezia e l’avverarsi, tra l’attesa antica e la nascita imminente. La sua presenza si chiarisce immediatamente, se si considera che rappresenta un’allegoria delle profezie sulla nascita di Gesù, sulle vicende della vita del Cristo e sul Giudizio Universale. Sebbene queste profezie siano basate su testi che sollevano seri dubbi.
Secondo Firmiano Lattanzio, se i profeti annunciarono il Messia agli ebrei, furono le sibille a comunicarlo ai pagani, seppur in modo oscuro.
Le sibille, raccontano i miti, erano vergini consacrate ad Apollo, isolate in grotte scolpite nella roccia, dove il fumo della terra apriva la mente e confondeva il tempo. Profetizzavano in trance, lasciando i loro vaticini scritti su foglie leggere come vento, le stesse foglie che spesso portavano via il senso del messaggio. Erano donne misteriose, consultate da re e guerrieri, temute dal popolo, talvolta vaghe, spesso enigmatiche: guide incerte, come stelle velate nella notte.
Secondo la leggenda, re Tarquinio (il Prisco secondo Varrone in Lact., Inst., I, 6, o il Superbo secondo Plinio in Nat. Hist., XIII, 88) acquistò i Libri Sibillini dalla Sibilla Cumana, che inizialmente gliene offrì nove a un determinato prezzo, bruciandone poi tre ad ogni tentativo di contrattazione, giungendo infine a pagare per il valore iniziale richiesto solo i tre rimasti intonsi alla fine.
L’introduzione e l’uso dei Libri Sibillini a Roma rappresentano la più antica prova dell’influenza ellenica penetrata nella città attraverso l’Italia meridionale, e precisamente da Cuma, celebre per il culto di Apollo e la presenza della Sibilla Cumana.
L’origine della visione cristiana della tradizione medievale sulle sibille è attribuibile all’apologista Firmiano Lattanzio, che nel IV secolo, nella sua opera “Divinae Institutiones”, riprende il tema dei Libri Sibillini. Tuttavia, si sa che, soprattutto i primi tre libri, furono redatti inizialmente da autori ebrei, ma successivamente, probabilmente dopo il II secolo, vennero modificati, ampliando il corpus dell’opera con l’aggiunta di ulteriori volumi.
Gaio Svetonio Tranquillo, nelle “Vite dei Cesari”, racconta che, secondo una tradizione, Augusto si recò a Cuma per consultare la sibilla, la quale avrebbe profetizzato la venuta di un re universale nel mondo. Questo evento fu interpretato dai cristiani come un riferimento alla nascita di Gesù Cristo:
“Iam quondam etiam praedictum est fatidica Sibylla, regem populi Romani naturam parturire, cuius imperium finem non haberet” (Divus Augustus, 94)
cioè: “Si narra che molto tempo prima la Sibilla aveva profetizzato che la natura stava per partorire un re per il popolo romano, il cui dominio non avrebbe avuto fine”.
Questa leggenda è alla base della fondazione della Basilica di Santa Maria in Ara Coeli a Roma, poiché la sibilla avrebbe invitato ad adorare il bambino, nel luogo dove poi sarebbe stata costruita la basilica, realizzando un altare, ara, del cielo, coeli. Ecco come ce lo racconta la “Legenda aurea” di Jacopo da Varagine:
“Inoltre, come dice papa Innocenzo III, l’imperatore Ottaviano, dopo aver soggiogato tutto il mondo al potere di
Roma, fu così bene accetto al senato che vollero adorarlo come un dio; ma il saggio imperatore, che sapeva di essere mortale, non volle attribuirsi il titolo di immortale. Di fronte alle loro richieste convoca la profetessa Sibilla per sapere dai suoi oracoli se mai sarebbe nato qualcuno di più grande nel mondo. Convocò dunque un’assemblea proprio nel giorno del Natale del Signore e mentre la Sibilla si trovava nella stanza dell’imperatore, a mezzogiorno un cerchio d’oro apparve attorno al sole e nel mezzo del cerchio si vide una bellissima vergine che stava su un altare con in grembo un fanciullo. Allora la Sibilla mostrò l’apparizione a Cesare. L’imperatore, mentre rimaneva ammirato a contemplare la visione, udì una voce che diceva: «Questa è l’Ara Coeli, l’altare del cielo». Gli disse la Sibilla: «Questo fanciullo è più grande di te: adoralo». La stanza fu dedicata a santa Maria e fino ad oggi è chiamata Santa Maria Ara Coeli.” (De Nativitate Domini 6, 91:99)
Fu Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio e, successivamente, Aurelio Agostino d’Ippona, a citare la Sibilla come profetessa. Tuttavia, tranne alcuni rari casi, come la Sibilla Eritrea raffigurata nell’ambone del XIII secolo della Cattedrale di Sessa Aurunca, sia l’iconografia sia le profezie attribuite alle sibille derivano da un’opera del domenicano Filippo Barbieri, siracusano, pubblicata a Roma nel 1481, intitolata: : “Discordantiae nonnullae inter S.S. Hieronymum et Augustinum”. È significativo che, proprio dal momento della pubblicazione di questo testo, abbiano iniziato a comparire le raffigurazioni delle sibille (prima erano presenti solo la Sibilla Eritrea e, raramente, quella Tiburtina). Filippo Barbieri, nel suo scritto, descrive dettagliatamente anche la tipologia delle vesti delle sibille, specificando il colore dei loro abiti, con una precisione tale da sembrare quasi un’indicazione per i pittori, una sorta di linea guida per raffigurare le profetesse.
Eppure, nella sua grotta del presepe, la Sibilla appare spesso curva, antica, quasi consunta. Non ha la bellezza delle altre profetesse dipinte da Michelangelo che nella volta della Cappella Sistina in Roma, agli inizi del XVI secolo, raffigura, alternate ai Profeti, cinque mirabili sibille: Delfica, Cumana, Eritrea, Persiana e Libica. Degne di nota sono anche le nove sibille incise nel pavimento del Duomo di Siena, a partire proprio dal 1481.
La sua è una bellezza che si è consumata nei secoli, una fiamma che brucia ancora anche quando la candela è ormai cera. Ovidio racconta che Apollo le concesse tanti anni quanti i granelli di sabbia raccolti nel suo pugno, ma lei dimenticò di chiedere la giovinezza. Così visse, per anni e anni, mentre il corpo si restringeva e si assottigliava, fino a diventare quasi solo voce: un suono sospeso che non muore. Deperì, mentre il suo spirito restava immortale. Ecco come lo riferisce Publio Ovidio Nasone nelle “Metamorfosi”:
“Non venerare con l’incenso sacro un essere umano. E perché la cecità non t’induca in errore, sappi che luce eterna e senza fine avrei potuto ottenere, se la mia verginità si fosse concessa a Febo, che mi amava. Nella speranza di ottenerla, corrompendomi con i suoi doni, Febo mi disse: ‘Esprimi un desiderio, vergine cumana: sarà esaudito’. Io presi un pugno di sabbia e glielo mostrai, chiedendo che mi fossero concessi tanti anni di vita quanti granelli di sabbia c’erano in quel mucchietto. Sciocca, mi scordai di chiedere che anni fossero di giovinezza. Eppure anche questo m’avrebbe concesso, un’eterna giovinezza, se avessi ceduto alle sue voglie. Disprezzato il dono di Febo, eccomi qui, ancora nubile. Ma ormai l’età più bella mi ha voltato le spalle, e a passi incerti avanza un’acida vecchiaia, che a lungo dovrò sopportare. Vedi, sette secoli son già vissuta: per eguagliare il numero dei granelli, trecento raccolti e trecento vendemmie devo ancora vedere. Tempo verrà che la lunga esistenza renderà il mio corpo piccolo da grande che era, e le mie membra consunte dalla vecchiaia si ridurranno a niente. E non si potrà credere che m’abbia amata un dio, che a lui sia piaciuta. E forse persino Febo non mi riconoscerà o negherà d’avermi mai amata, tanto sarò mutata. Alla fine nessuno più mi vedrà: solo la voce mi rivelerà, la voce che il fato vorrà lasciarmi.” (14, 173-174)
Nel presepe quella voce continua a parlare. Parla ai pastori, parla ai magi, parla perfino agli increduli. È lei che sussurra che tutto questo, la grotta, il bue, l’asino, i poveri che accorrono, era stato già scritto. È lei che porta nel presepe il respiro del mito, della poesia, del tempo antico che prepara il tempo nuovo.
Brano tratto dal libro “Il senso nascosto del Presepe” disponibile solo on line al link: https://bookabook.it/libro/il-senso-nascosto-del-presepe/
Riccardo Agresti


