Sebbene Luca non parli esplicitamente di angeli che elevano la loro lode cantando, la musica sembra comunque aleggiare sul presepe fin dagli albori della tradizione, come un soffio antico.
I primi ad apparire con uno strumento tra le mani, ma ancora trattenuto, quasi fosse un respiro in attesa, furono i pastori. Forse perché la liturgia prediligeva il canto puro, privo di accompagnamenti terreni, mentre gli strumenti appartenevano alla sfera profana: suoni di terra e di vento, più vicini ai pastori che agli angeli.
In Italia, fu intorno al XII secolo che le raffigurazioni iniziarono a mostrare pastori che, tornando dalla grotta, suonavano il loro strumento: un gesto semplice e grandioso, un modo per “lodare e glorificare Dio”, come suggerito in quel passo sommesso di Luca (2,20) e ribadito con forza dalla Bibbia:
“Lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra;
lodatelo con timpani e danze,
lodatelo sulle corde e sui flauti.
Lodatelo con cembali sonori,
lodatelo con cembali squillanti” (Salmo 150, 3-5)
Con il XV secolo, la musica divenne un dono esplicito, un’offerta che ciascuno poteva deporre davanti alla culla. Nella lauda “Rappresentazione della Natività di Cristo”, un pastore dice con tenerezza contadina:
“Di questo cacio t’intendo far dono,
e con questo mio zufolo farti suono”.
Già nel secolo precedente, il XIV, nelle pagine miniate erano apparsi angeli che accompagnavano il canto con strumenti delicati. Ma fu nel Rinascimento che gli angeli musicanti entrarono nelle opere più ampie, splendenti come un’orchestra celeste: arpe sottili, liuti dorati, organetti che parevano respirare luce.
Così, tra pastori che soffiano nei loro zufoli di bambù e cori angelici che accarezzano corde d’oro, il presepe diventa un concerto antico: una musica senza partitura, sospesa tra terra e cielo.
Oltre agli angeli musicisti, messaggeri di quella pace che il Bambino porta nel mondo, la musica del presepe si fa improvvisamente umana e nasce dal cuore di altri personaggi, figli della cultura contadina a cui il presepe attinge a piene mani. Tra questi, i più emblematici sono lo zampognaro e il suonatore di ciaramella: due figure complementari come l’alba e il tramonto, come l’inizio e il compimento della vita.
La zampogna, affidata sempre a mani anziane, racconta con il suo soffio grave l’età avanzata dell’uomo.
Nell’otre di pelle di capra o di pecora, decorato da simboli apotropaici, l’aria prende forma e si fa voce: scivola nelle canne dotate di ance, una dedicata alla melodia, una all’accompagnamento e le altre al bordone, la nota fissa che è come il respiro antico della terra. Le voci di legno vi si intrecciano, ciascuna con il suo carattere, ma tutte obbedienti allo stesso soffio dell’uomo. Nei secoli, il nome originale dello strumento, symphōnĭa, mutò veste e accento, rotolando nel parlato dei villaggi e delle montagne. Così, quasi per incanto, quel nome venne trasformato dalla bocca del popolo in zampogna, ma niente andò perduto: non l’idea dell’armonia, non il miracolo del fiato che diventa coro, non la memoria remota dei pastori greci che suonavano gli αὐλοί (auloi), suoi probabili antenati. Per questo, nel presepe, la zampogna non è un semplice ornamento musicale, è la voce della terra che ritorna, il richiamo dell’antico che si fonde col nuovo.
Accanto alla zampogna, quasi sua eco giovane, risuona la ciaramella, sempre affidata a un ragazzo. La sua ancia doppia, sorella di quella dell’oboe e del fagotto, emette un suono più acuto, fresco come un vento mattutino. Così la musica diventa dialogo di età: il vecchio e il giovane, l’esperienza e l’impeto, l’inverno e la primavera.
In Lucania, non è raro vedere ben due ciaramellari affiancare lo zampognaro, come se un’unica voce non bastasse a contenere lo stupore del Natale.
La musica è una magia antica, una corrente invisibile che affascina, rapisce, attira a sé le persone come un filo di luce. È un linguaggio senza parole, capace di far vibrare lo stesso sentimento in popoli lontani, che forse non saprebbero comprendersi con la voce, ma che davanti a una melodia possono riconoscersi come fratelli.
Non è un caso se l’immaginazione moderna ha visto nella musica persino la possibilità di un dialogo tra mondi: nel film di Steven Spielberg, “Close Encounters of the Third Kind”, è una sequenza di note a tessere il primo ponte tra umani e creature venute dalle stelle, come se l’armonia fosse la lingua primordiale dell’universo. La musica, nel presepe come nella vita, è una magia antica: affascina, rapisce, accoglie. Trasmette emozioni senza chiedere parole, unisce popoli che non condividono la lingua, ma riconoscono lo stesso fremito, lo stesso ritmo del cuore. Perciò, davanti alla grotta, tutto diventa più semplice: basta un soffio, una melodia, perché gli uomini si ricordino di essere fratelli, magari rendendo realtà l’augurio della frase attribuita a Jim Morrison:
“Un giorno anche la guerra s’inchinerà al suono di una chitarra”.
Oltre ai suonatori di zampogna e ciaramella, nel presepe sono presenti spesso anche gli strumenti delle taverne, quelli che fanno vibrare le corde della festa umana: le chitarre ardite, le tammorielle dal suono circolare, le tiorbe a taccone, i colascioni dal manico smisurato, le viole e i violoni ormai scomparsi dalla musica moderna. È con loro che si anima il mondo del presepe: il vino, le risa, la fraternità, la danza che si infiamma tra le luci di un Natale senza tempo.
Questi suonatori non sono semplici comparse: sono l’eco vivente dei musicisti che San Gaetano da Thiene volle accanto alle preghiere della Novena, quando, a partire dal 16 dicembre, il popolo si radunava per cantare l’attesa del Natale. La loro musica non era intrattenimento, ma preghiera fatta melodia: un dono per il Bambino, un ponte tra l’umano e il divino.
A metà del XVIII secolo, nella Napoli brulicante di voci e di vicoli, la musica non era solo un’arte, divenne un ponte, un richiamo, un balsamo. Accompagnava le preghiere del santo vescovo Alfonso Maria de’ Liguori, doctor zelantissimus, avvocato, clavicembalista, compositore e infaticabile cercatore di anime, che tra il popolo trovava il suo vero altare. Fu lui a radunare i lazzari, così chiamati spregiativamente dagli Spagnoli: popolani del quartiere del Mercato che, un secolo prima, avevano partecipato alla sollevazione di Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello. Erano uomini semplici, artigiani, manovali, saponari, muratori, falegnami: anime umili che raramente entravano in chiesa, ma che sapevano ascoltare il richiamo delle melodie.
Antonio Maria Tannoia, nel suo “Della Vita …”, riportato nell’Enciclopedia Treccani, spiega:
“In Napoli “per lo più operava egli nel mercato e nel lavinaro”. Le viuzze della conceria, le piazze poste nelle vicinanze di qualche chiesa, trasformate in centri di adunanze religiose – le cosiddette “cappelle” – offrirono i primi temi di analisi al prossimo riformatore e formatore di coscienze. Le persone che vi convenivano “non erano nobili, ma lazzari, saponari, muratori, barbieri, falegnami, ed altri operai; ma quanto più erano dell’infima condizione tanto maggiormente venivano abbracciati da Alfonso”…”
Le melodie di Alfonso Maria de’ Liguori sono ancora oggi la colonna sonora del presepe. Nel 1754, nella sesta edizione delle “Operette spirituali”, pubblicò a Napoli “Tu scendi dalle stelle”, il canto che da tre secoli culla la fede popolare. Ma ancor prima, quasi come un seme gettato nel cuore della notte, aveva composto la “Pastorale”, meglio conosciuta come “Quanno nascette Ninno”, un gioiello in lingua napoletana che intreccia Vangelo di Luca, spunti apocrifi e suggestioni profetiche di Isaia.
È una ninnananna cosmica in cui l’universo intero partecipa al miracolo della nascita. Eccone alcuni versi:
“Quanno nascette Ninno a Bettlemme
Era notte e pareva miezo juorno.
Maje le Stelle – lustre e belle – se vedetteno accossí:
E a chiù lucente
Jette a chiammà li Magge ‘a ll’Uriente.
…
Co tutto ch’era vierno, Ninno bello,
Nascetteno a migliara rose e sciure.
Pe ‘nsí o fieno sicco e tuosto
Che fuje puosto – sotto a Te,
Se ‘nfigliulette,
E de frunnelle e sciure se vestette.”
Qui l’inverno si scioglie, il fieno germoglia, i fiori irrompono come una primavera impossibile: è la teologia trasformata in poesia pastorale, una catechesi vestita di meraviglia.
Una libera traduzione svela il cuore di questo stupore: “Quando nacque il Bimbo a Betlemme era notte, ma sembrava fosse mezzogiorno Mai, le stelle furono così limpide e pure. Una, la più ardente, andò a chiamare i Magi dall’Oriente. […] Benché fosse inverno, migliaia di rose e di fiori sbocciarono. Persino il fieno, ruvido e secco, che giacque sotto Te, si fece tenero germoglio e si vestì di foglie nuove e di profumati fiori.”
È la visione di un Bambino che nasce ai margini del mondo, tra pastori, zampognari e lazzari, e che da lì, dal basso, dal semplice, dal fragile, prova a cambiare la storia non con la forza, ma con la musica, la gentilezza e l’amore.
Così, nel presepe, ogni figura suonante è un’eco di quel messaggio. Non sono solo musicisti: sono i primi testimoni di una rivoluzione fatta di luce, di note e di misericordia. Nella loro musica risuona la stessa promessa che Alfonso sussurrava ai vicoli di Napoli: che anche il cuore più povero può diventare una stella, e che persino la notte più fitta, a volte, sa diventare mezzogiorno.
Ma l’eco di questo canto non finisce nel passato. Ancora nel XX secolo, Fabrizio De André, ispirandosi ai vangeli apocrifi, dedicò al Cristo de “La buona novella” parole che risuonano come un controcanto moderno alla dolce radicalità di Alfonso:
“contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali” (Concerto al teatro Brancaccio, Roma, 14 febbraio 1998).
Brano tratto dal libro “Il senso nascosto del Presepe” disponibile solo on line al link: https://bookabook.it/libro/il-senso-nascosto-del-presepe/
Riccardo Agresti


