Roma, Festa del Cinema. La sala respira come un organismo collettivo quando Jafar Panahi entra, finalmente di persona, dopo anni di divieti, arresti e viaggi impossibili. Il suo primo red carpet fuori dall’Iran diventa un fotogramma storico: non solo un ritorno, ma una vittoria. Il premio alla carriera consegnato qui ha il sapore di un abbraccio tardivo.
Già alla fine degli anni ’60 si intravedeva la nascita di un nuovo sguardo cinematografico, con “Gaav” (1969), di Dariush Mehrjui, che cambia il corso del cinema iraniano, raccontando con una semplicità che sfiora il perturbante l’amore assoluto di un uomo per la sua mucca, unico suo bene, e il crollo emotivo che lo travolge quando l’animale muore.
Il cinema iraniano vive da decenni su un set in trincea, sospeso tra permessi negati, manoscritti sequestrati e un sistema che considera ogni storia potenzialmente sovversiva. È dentro questo spazio di costrizione che autori come Abbas Kiarostami hanno costruito un linguaggio cinematografico unico, essenziale, contemplativo, ricco di arte dell’allusione in cui la sottrazione diventa poesia. Allo stesso tempo, la messa in scena è palpabile, immersiva, si avverte sulla pelle come ne “Il tempo della ciliegia”, vincitore della Palma d’oro a Cannes, che fa sentire la polvere e l’aridità del deserto addosso.
Asghar Farhadi affronta la censura come un giudice invisibile che incombe su ogni dialogo. I suoi drammi morali – famiglie che si sfaldano, verità che mutano – raccontano un Paese dove la complessità umana deve fare i conti con rigide cornici politiche. Il non detto, nei suoi film, pesa quanto le parole.
Panahi ha scelto la via della disobbedienza filmata. Dalle case trasformate in set claustrofobici ai taxi che diventano studi mobili, il suo cinema nasce dall’impossibilità stessa di farlo. Quando lo Stato gli ha tolto la macchina da presa, lui ha filmato la sua impossibilità di filmare. Ogni suo film è una sfida diretta al silenzio imposto. “Un semplice incidente” (2025), vincitore della Palma d’oro al 78° Festival di Cannes, racconta di come la quotidianità possa diventare tragedia universale, trasformando un fatto minimo in un racconto di dolore collettivo.
C’è poi “Persepolis” (2007) di Marjane Satrapi, tratto da un adattamento della graphic novel: la particolare e divertente storia di una ragazza che cresce durante la rivoluzione iraniana, film candidato all’Oscar, è una storia travolgente sul trovare il proprio posto nel mondo.
In questo panorama arriva “The Things You Kill” (2025) di Alireza Khatami, con la sua costruzione narrativa che sorprende, affronta la perdita e le colpe sommerse. Il film restituisce una ricercatezza nelle inquadrature che apre porte (e finestre) a un’estetica carica di significato, metafora di una discesa, varco dopo varco, verso l’inconscio. Khatami indaga la connessione tra memoria, trauma e dinamiche del potere, ne filma riflessi, vuoti e ferite.
Il cinema iraniano continua così, tra ostacoli e ideali, a trasformare la pressione politica in materia poetica. La presenza di Panahi a Roma, l’eredità di Kiarostami, la tensione morale di Farhadi, le radici tracciate da Dariush Mehrjui, la sensibilità contemporanea di Marjane Satrapi e il coraggio visionario di Khatami raccontano una storia comune: quella di un’arte che resiste. Un cinema che non smette di parlare, anche quando gli chiedono di tacere.
Marzia Onorato


