13 Dicembre, 2025
spot_imgspot_img

Giornale del Lago e della Tuscia edito dall'Associazione no-profit "L'agone Nuovo". Per informazioni su pubblicità e le nostre attività: 339.7904098 redazione@lagone.it

Selene è libera

Gianni, fotografo affermato, aveva ricevuto l’incarico di catturare l’incanto dell’eclissi lunare. Quella sera, la Luna sarebbe sorta già velata, immersa nella sua fase di totalità, come una regina che si presenta al mondo già incoronata d’ombra. Come sempre lui non cercava uno scatto: cercava la magia. Scelse appositamente un luogo che parlasse al cuore: le sponde quiete del lago, dove l’acqua taceva come in attesa e il cielo si apriva verso est, pronto a svelare il suo segreto.

 

L’incanto non si cattura, si contempla

Si sistemò in silenzio, circondato dal respiro della notte, con la macchina fotografica tra le mani, come fosse un violino pronto a suonare la sinfonia della luce, il mezzo per celebrare la bellezza. Il suo mestiere era anche un rito. Un atto d’amore verso l’immagine.

 

Le acque tacevano, immobili come specchi d’anima, trattenendo il fiato nell’attesa del prodigio. Il cielo, vasto e solenne, si vestiva a poco a poco di mistero. Il mondo, in silenzio, tratteneva il fiato: Selene, la dea lunare, stava per fare il suo ingresso. Velata dal manto d’ombra della Terra, sarebbe avanzata con passo silenzioso, discreta e maestosa. Come una sposa che si concede allo sguardo solo quando il cuore è pronto a riceverla. Come una donna che conosce il peso del proprio incanto. Quando finalmente si sarebbe innalzata sopra l’orizzonte, là dove tutti gli occhi l’attendevano, avrebbe finalmente sollevato il velo con grazia infinita, svelando il suo volto pallido e incantato, con la dolcezza di chi conosce l’arte di commuovere. Ogni gesto, ogni bagliore, sarebbe stata una carezza al mondo e la sua luce, timida e trionfante, sarebbe tornata a cantare la bellezza che attraversa i secoli. Quella che Saffo aveva già sussurrato: “Selene dai raggi rosa, che vince tutti gli astri”.

 

Il tempo dell’attesa scivolava lento, come sabbia tra le dita del silenzio. Ma Selene non mancò all’appuntamento. Emerse dalle acque sollevandosi, lenta e maestosa, come una fata che non chiede il permesso per essere adorata, come una visione ferita, velata da un’ombra che non le apparteneva. Come se il cielo stesso avesse posato su di lei un segreto remoto. Come se avesse pianto lacrime di luce per un amore perduto. Il rosso sul suo volto sembrava una luce inviata da un universo che desiderava raccontare una storia d’amore perduto con una malinconia sospesa.

Un uccello si alzò in volo, silenzioso e solitario, tracciando nell’aria una domanda invisibile, forse anche lui voleva osservare meglio, come se anche lui cercasse di capire quel miracolo che si stava compiendo sopra il mondo.

 

Il desiderio che non sa amare

Appena la vide, un ricordo lo trafisse come una lama sottile. Tornò a lei, a Calistae. A quella sera lontana, ormai smarrita tra le pieghe del tempo, quando avevano guardato la Luna insieme, abbracciati. Lei gli aveva sussurrato, con voce tremante di meraviglia: “Quando la Luna diventa rossa, è perché il cielo si emoziona troppo”. Lui aveva riso allora. Ora non rideva. Lei non c’era più. Forse lontana. Forse dissolta in un altrove che non gli apparteneva e il dolore, quel dolore ostinato, pulsava ancora forte, come un tamburo sommerso nel petto.

 

Si erano lasciati perché lui non aveva saputo reggere quella luce che la avvolgeva ogni volta che saliva su un palco e diventava altro, più grande, più libera, più vera. Quegli sguardi appoggiati su di lei, come i riflettori che la incoronavano, erano troppi e sembravano affilati come spine. Ma gli sguardi del pubblico non la spogliavano: la incoronavano, era lui, accecato dalla gelosia, che non vedeva più la donna. Vedeva solo il riflesso del suo timore. Era distratto da ciò che contava: gli occhi di Calistae, due stelle che brillavano non per vanità, ma perché viveva mille vite su quelle assi di legno, immergendosi in ciascuna donna che rappresentava. Donne di altri tempi, di altri mondi. Calistae non recitava, si trasformava. Viveva mille vite e in ognuna lasciava cadere un frammento di sé. Ma lui non la riconosceva. La sentiva distante. Non comprendeva che non si può chiudere il fuoco in una lanterna. Non si accorgeva che se al rientro era stanca, tornava ogni volta più ricca, più viva.

 

Lui fotografava la bellezza. Lei era la bellezza. Aveva cercato di trattenerla, come si tenta di imprigionare il vento in una fotografia. Ma la bellezza, come la Luna, non si lascia possedere. Si lascia guardare e poi, se ne va.

Lui l’avrebbe voluta solo per sé. Perché la amava troppo o, forse, e questa verità lo graffiava più di tutte, non l’aveva mai amata davvero. Perché amare non è possedere. Amare è gioire del bene dell’altro, anche quando quel bene non ci include. Amare è restare in silenzio, sotto una Luna rossa, e lasciarla andare.

 

Così, in una di quelle sere in cui la sua voce aveva incendiato il teatro, in cui i suoi occhi avevano brillato come stelle sul quel palco, in cui la sua figura sembrava scolpita dalla luce stessa, lui non ce l’aveva fatta.

Qualcosa dentro si era spezzato. Avevano litigato, per un motivo banale, ridicolo, di quelli che il tempo cancella senza pietà, ma che in quel momento segnano il confine tra l’amore e l’addio. Una frase detta male, un gesto frainteso e l’amore non finì: si ruppe. Come un cristallo che cade senza rumore, ma lascia mille schegge nel cuore. Si erano lasciati male. Con parole taglienti, dette troppo in fretta, senza comprenderne il significato. Poi c’erano stati silenzi che gridavano ancora più forte di qualsiasi urlo. Infine il vuoto.

Ora erano soli o, almeno, lo era lui. Lei danzava ancora tra le luci, tra gli applausi e le maschere. Lui restava nell’ombra, a contare le crepe di un amore che non aveva saputo proteggere.

 

Lo sguardo di Selene

Prese la macchina fotografica con mani quasi tremanti, come se temesse di profanare un miracolo. Scattò una foto. Poi un’altra. Un’altra ancora. Ma ogni scatto sembrava un tentativo vano di trattenere l’eternità.

La bellissima Selene avanzava dolcemente nel cielo. Non era una semplice luna: era la fanciulla dei miti, la dea che ogni notte solcava il cielo per raggiungere il suo amante addormentato, Endimione, condannato a mille anni di sonno per aver osato amare una divinità. In quella notte, pareva davvero volasse verso di lui, vestita di luce e nostalgia.

Guardò i primi scatti. Nessuna immagine raccontava la verità di quel momento. Non c’erano le vesti bianche e argentee, lievi come sospiri, che fluttuavano nel cielo come veli mossi dal vento. Non c’era lo sguardo di Selene, quello sguardo che hanno solo le donne perdutamente innamorate, lo sguardo di chi già vede l’amore in lontananza. Lui quegli occhi, così lontani eppure così vicini, li aveva già visti. Erano su un palcoscenico. Quegli occhi avevano incrociato il suo sguardo e lui se ne rendeva conto solo ora.

Continuò a scattare, ma la macchina non riusciva a catturare quel sogno. Sul freddo schermo digitale appariva solo un cerchio rossastro. Nessuna immagine raccontava la verità che lui vedeva. Nessuna traccia del carro celeste, che trasportava Selene verso Endimione. Nessuna voce, nessun brivido. Solo il silenzio. L’obiettivo era cieco davanti a quella visione divina.

Quella lente che aveva immortalato sorrisi rubati, piogge leggere, tramonti infuocati che avevano commosso chi aveva visto i suoi lavori, quella sera, non afferrava nulla. Certi miracoli, non si fotografano, si vivono, e bruciano dentro se non si è riusciti a riconoscerli.

Abbassò lentamente la macchina fotografica, come una resa.

 

L’amore che stringe troppo non è amore

Selene brillava sopra di lui, eterea e distante. Ma viva. Così viva da far tremare il cuore. Si offriva al mondo, senza appartenere a nessuno. Come Calistae. Come tutte le donne che non si lasciano definire, ma solo ammirare.

Gianni non voleva imprigionare quel fascino. No, non era quello il suo intento. Voleva solo condividerlo, spalancarlo al mondo, far sì che anche altri potessero sentire quel brivido, quella vertigine dolce e dolorosa che lo attraversava mentre guardava il miracolo compiersi. Voleva che capissero. Che sentissero. Che si perdessero, come lui, in quella luce che non si lascia spiegare. Ma quella sera si rese conto che lui, con gli occhi pieni di cielo, non aveva compreso lo sguardo dell’amore. Forse per questo lo schermo restava muto.

Si sedette sull’erba umida, senza fretta, lasciando che il freddo gli attraversasse la pelle come un richiamo antico. Alzò lo sguardo e lasciò che Selene gli parlasse. Non con parole, ma con quella luce diafana che sembrava tremare tra le stelle. Parlava con il silenzio, con la grazia di chi non ha bisogno di voce per farsi comprendere.

Selene gli parlava svelandosi piano, come una verità che non vuole ferire. Gli raccontava, senza suono, che la sua bellezza nasceva dalla libertà. Che nessuno può appartenere a nessuno. Che l’incanto immortale non è dono per tutti, ma solo per gli occhi capaci di guardare con rispetto. Che solo chi sa guardare senza desiderio di possesso può davvero divenire egli stesso parte di quella bellezza.

Gli altri, quelli che osservano senza vedere, si fermano alle curve morbide, alla luce che accarezza, al velo trasparente, ma senza mai comprendere la profondità di quel mistero.

Così, parlando di bellezza, Selene, con studiata lentezza, scostava quel velo scuro che la Terra le aveva imposto, come una donna che si libera da un abito che nasconde la sua essenza. Spostò quel velo d’ombra con la grazia di una donna che si sveste non per mostrarsi, ma per liberare la propria bellezza. Con il fascino di chi non ha bisogno di voce per farsi comprendere. Si rivelò completamente, nella sua nudità elegante e sacra e, per un istante, il mondo tacque, come se anche il tempo avesse smesso di correre per ammirare il fascino di Selene.

Gianni vide Selene e riconobbe Calistae. Vide in lei tutte le donne che non si lasciano definire, ma solo ammirare. Poi la Luna tornò a essere solo Luna. Ma lui no. Lui era cambiato. Aveva ascoltato il cielo, il lago, il silenzio. Quella notte, finalmente, aveva capito: l’amore non è possesso, non è trattenere. Aveva capito che l’arte, la natura, l’amore, le donne non si possiedono. Si amano. Si lasciano libere. Come la Luna, riflessa sulle acque placide, che era visibile a tutti, ma non apparteneva a nessuno. Non si lasciava trattenere. Proprio per questo viveva felice. Amare non è paura della libertà altrui. È offrire le ali a chi si ama. L’amore che stringe troppo non è amore, è fame, e Calistae non era un pasto da consumare: era luce, ma la luce, se chiusa in una scatola, smette di brillare.

 

Riflesso sulle onde, Gianni non vedeva più se stesso come fotografo ammirato che sapeva trasmettere emozioni, ma se stesso come uomo che aveva confuso l’amore con il bisogno.

Tornò al teatro. Non per riprenderla. Ma per applaudirla. Per fotografarla con la mente. Per amarla come si ama la Luna: da lontano, senza catene.

Perché la libertà è ciò che permette all’arte, alla natura e all’amore di esistere.

 

“L’eclissi del 7 settembre 2025”

 

“Eclissi passate e future tra mito, fede e scienza”

 

“La fisica delle eclissi lunari”

 

 

Riccardo Agresti

Ultimi articoli