La prima vera sfida del mio viaggio non è stata una barriera linguistica o una differenza culturale. È stata la rete: quel mondo invisibile e intangibile dove siamo abituati a muoverci con leggerezza. In Cina, ho scoperto che le connessioni possono essere lente, ostacolate, controllate. E non solo quelle digitali.
Non riuscivo ad accedere ai giornali occidentali, i social si bloccavano, la posta elettronica sembrava vagare nel limbo dell’attesa, e anche WhatsApp arrancava. Il telefono, dopo qualche inciampo, si è adeguato, ma l’esperienza è rimasta segnata da un’informazione frammentata, filtrata. Il DNS del mio computer, secondo il mio antivirus, era stato reindirizzato da un “ente esterno”. Non stupisce: la Cina applica uno dei sistemi di censura online più sofisticati al mondo, il cosiddetto Great Firewall. Google, Facebook, Instagram, YouTube? Semplicemente assenti.
We Chat
Ma i cinesi non ne sentono la mancanza. Oltre un miliardo di utenti attivi utilizzano WeChat: una app tuttofare che è ben più di una chat. Paghi, traduci, prenoti visite mediche, e da poco anche con carte internazionali: integra oltre 200 servizi: messaggi, pagamenti, prenotazioni, e persino accesso ai servizi pubblici. Ho scoperto che perfino un mendicante mostrava il suo QR code per ricevere l’elemosina. Basta un’inquadratura, e il gesto è compiuto. E al mercato, le transazioni avvengono senza scambi di parole o sguardi: solo codici che si incrociano.
Naturalmente questa app raccoglie e conserva dati su movimenti, conversazioni, spese … e tutto è a disposizione del governo. Ma il controllo non finisce lì. Telecamere ovunque, con riconoscimento facciale anche nei villaggi rurali, flash che scattano a raffica ai semafori, e un sorriso vigile nella gentilezza formale di agenti di sicurezza. Niente soldati visibili, se non silenziosi piantoni davanti a palazzi governativi in un “attenti” impettito. Nessun poliziotto minaccioso: solo addetti alla sorveglianza in giubbini fosforescenti, discreti e cortesi.
Controlli
All’arrivo a Pechino, passaporto, impronte digitali, foto del volto e qualche modulo da compilare. Tutto efficiente. E anche ai numerosi varchi nei siti culturali e nelle stazioni, la cortesia non mancava. Tranne quando i megafoni si facevano sentire: toni autoritari, che non capivo, ma che sembravano esortazioni al rispetto delle regole. Un giorno, una gentile guardia alla stazione ferroviaria mi ha segnalato un controllo. Parole in cinese, gesti
impercettibili. Non capendo, sono rimasto fermo. Poi la voce si è fatta più decisa, urlata. E ho capito subito, senza bisogno di traduzioni.
L’effetto di questo controllo totale è stata una drastica riduzione dei reati e maggiore sicurezza percepita. È una sicurezza che affascina e inquieta al tempo stesso. Non ho percepito minacce, ma il controllo era ovunque, in forma discreta e più sottile. Per la ricorrenza della strage di Tienanmen, ad esempio, l’accesso alla piazza è stato vietato agli stranieri. Eppure, in mezzo a robot pulitori e cani meccanici che camminano tra i passanti, la Cina mi ha mostrato una straordinaria efficienza. Un Paese dove la tecnologia è ovunque, ma è anche parte del sistema di sorveglianza. Dove la libertà è un concetto diverso, rimodulato in nome dell’ordine. E dove il viaggio, ancora una volta, diventa un esercizio di osservazione, di ciò che si vede e di ciò che si intuisce.
Riccardo Agresti
La puntata precedente: 2 Tra verità e prospettiva
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