20 Aprile, 2024
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La montagna e la conversione ecologica (seconda parte)

Non solo la natura è protagonista del forum di Greenaccord, che sotto le dolomiti bellunesi di Santa Giustina dedica la prima sessione al ricordo di Albino Luciani e alla lettura del territorio montano ieri e oggi. La montagna nell’arte del Novecento è la conferenza con cui il museologo di fama ed esperienza internazionale, Maurizio Vanni, cattura tutto il pubblico portandolo nell’esperienza del sublime perché: “Il coinvolgimento emozionale e la condivisione di stati d’animo sono tra i propulsori principali che animano gli artisti. La montagna sollecita l’apparato sensoriale, non solo per la bellezza inattesa degli scenari, ma anche per l’aura di mistero, per le leggende che si porta dietro e per quel senso di potenza e onnipotenza che ci fa sentire tutti più vicini al cielo”.

Le suggestioni battono le rappresentazioni, la simbologia può essere più prepotente. Dal lato estetico al lato spirituale: gli artisti vedono la montagna come elemento di congiunzione, con il suo punto di vista sacro e divino. Così Vanni, docente di Museologia per il turismo all’Università di Pisa e di Marketing non convenzionale alla Facoltà di Economia di Roma Tor Vergata, passa dalla struttura della Commedia dantesca sulla montagna, simbolo per l’ascesa e la purificazione dell’anima, alla luce di William Turner che raffigura la tempesta in montagna con una luce innaturale interpretata come divina e divinatoria, oltre il lato estetico e oltre la materia, il dualismo luce e ombra.

Vanni, che attualmente lavora per la Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Lucca e Massa Carrara – Valorizzazione e Gestione dei Beni, trascina il pubblico alla “Montagna punto di riferimento di eventi importanti, mai casuale”. E allora sono le Montagne a Saint-Rémy di Van Gogh – quelle che lui vede dal suo ospedale psichiatrico, la dura realtà rappresentata con i grigi – oppure quelle di Cézanne con la serie del Sainte-Victoire, fuori dal disegno classico perché il solo senso della vista non sarebbe sufficiente ad appagare l’anima: espressione naturale e colore biologico, vivente.

Poi il Depero che torna deluso da New York e dall’idea dell’avanguardia socioculturale che vi aveva immaginato, rifugiandosi nella simbologia più concreta della montagna, valori più solidi con sci e piccozza in primo piano. Fino alla rappresentazione del materialismo sciocco e passivo nella montagna di spugne di Jeff Koons (Sponge Shelf, 1978), per arrivare infine a Mauro Staccioli e alle sue sculture aperte, che sono “ostacoli da superare” cambiando ottica alle cose: “La bellezza salverà il mondo – ricorda Vanni – a patto che l’individuo salvi se stesso prima. Tutto passa attraverso noi, è necessaria l’umiltà per percepire e la fede per afferrare tutto questo”. Così è la montagna di Bansky, due bambini e un orsacchiotto sulla sommità di una cupola di armi e macerie, con un palloncino  a cuore, a terminare questa narrazione: la speranza, la natura che si affaccia dopo lo sfacelo.

Maurizio Vanni accompagna così i presenti alla conclusione: “Gli artisti, sismografi del loro tempo, identificavano la montagna come un luogo magico dove i sogni e la magia superavano la fatica del vivere; una connessione con i valori e con la profondità dei pensieri, per questo oggi la simbologia della montagna rimanda alla violazione del contratto tra uomo e natura. Così Staccioli indica che è ancora tutto davanti a noi, anche se il pericolo è dietro l’angolo c’è questo contratto ancora aperto dove la montagna è un luogo fisico e va attraversata: per vivere le emozioni dobbiamo essere lì, la mistica è una scorciatoia per giungere al mistero di Dio, la mistica favorisce l’incontro con l’immaterialità, ma senza questo approccio non si può vivere la montagna nella sua dimensione”.

Dalla mostra narrazione di Maurizio Vanni al valore culturale della memoria di Patrizia Luciani, che apre con un intervento su Papa Luciani, il cammino e la montagna sottolineando come “questo Papa ha sempre cercato nella vita di ricreare il senso identitario e di comunità, di famiglia, in tutti i luoghi dove è stato. La riconciliazione per Luciani era andare a Pietralba e rientrare in contatto con la natura anche senza parlarne in modo lirico o esplicito”. La scrittrice, omonima del Pontefice, che nell’opera Un prete di montagna. Gli anni bellunesi di Albino Luciani (1912 – 1958) ripercorre di Luciani l’infanzia a Canale d’Agordo e gli anni della formazione nei seminari di Feltre e Belluno, porta l’attenzione sulla coscienza ecologica e sul rapporto con le novità, le idee nuove verso cui tendeva l’attenzione di Albino Luciani nel rispetto però delle dottrine e dell’istituzione.

La consuetudine con l’ambiente naturale e l’evoluzione che sente necessarie per la giustizia sociale, assomigliando in questo a Bergoglio, portano la Luciani a ricordare questo Papa come un precursore delle teorie in cui le scorie dell’economia ad alto consumo compromettono anche le risorse destinate alla vita equilibrata degli uomini in una società equa: “Quattro sono le condizioni che Albino Luciani descrive come necessarie per una coscienza ecologica autentica: innanzitutto il bene della persona umana è lo scopo della produzione, e questo non si può ritorcere sulla persona stessa; inoltre il Cristianesimo insegna l’uso moderato dei beni e non lo spreco, la sobrietà. L’uomo, comunque, è inseparabile dall’ambiente naturale e le risorse del mondo non sono illimitate”. Sono indiscutibili le molte somiglianze con papa Francesco e soprattutto sulla sensibilità ecologica c’è questa comune lettura che la scrittrice e docente di lettere rielabora nella pubblicazione grazie anche a una parte della sua tesi di dottorato sull’episcopato veneziano di Albino Luciani, svolta presso l’Università Cattolica di Milano.

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