23 Aprile, 2024
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Covid-19. La doppia prigione dei profughi: in lockdown e lontani da casa

Bombe a orologeria. Sanitarie, sociali, umane: i campi profughi sono ormai una doppia prigione, dove il distanziamento fisico è una chimera. Le situazioni in Sud Sudan, Siria, Grecia e Kenya

Bombe a orologeria. Sanitarie, sociali, umane. Con l’emergenza coronavirus che rischia di travolgere equilibri già esili e compromessi, frutto di convivenze forzate, condizioni igieniche disastrose, impossibilità di muoversi. I campi sono ormai una doppia prigione, dove il distanziamento fisico è poco più che una chimera.

L’ultimo “fronte” è il campo profughi dei Rohingya della regione di Cox’s Bazar, al confine con il Myanmar, in Bangladesh. Ma i campi disseminati in Siria, in Sud Sudan, in Kenya, in Grecia, rischiano tutti di essere travolti.

E diventare luoghi di contagio e morte. Nel mondo ci sono quasi 71 milioni di rifugiati e sfollati, il doppio rispetto al 2000. L’allarme arriva dall’organizzazione International Rescue Committee: «La rapida diffusione dell’infezione sulla nave da crociera Diamond Princess, all’inizio della pandemia, ha mostrato come il virus prosperi in spazi ristretti. Basta considerare che milioni di sfollati vivano in condizioni ben peggiori per capire quanto è alto il rischio a cui sono esposti». Un dato su tutti conferma il rischio. La popolazione ammassata in un spazi ridottissimi. Il campo Cox’s Bazar: 40mila persone per due chilometri quadrati. Moria in Grecia: 203.800 persone per due chilometri quadrati. Al-Hol in Siria: 37.570 in due chilometri quadrati.
In Bangladesh il Covid-19 è destinato a rendere ancora più tragiche le condizioni di vita della minoranza musulmana. Il campo è un’immensa baraccopoli con fogne a cielo aperto ed è uno dei 34 che ospitano in tutto oltre 750mila persone fuggite nell’agosto 2017 dal Myanmar. Due giorni fa il coordinatore sanitario Abu Toha Bhuiyan aveva annunciato la positività di almeno due profughi. L’Oms ha mandato subito «squadre rapide di ricercatori» per tracciare i contatti, testarli e metterli in quarantena. L’intera struttura è stato chiusa.

«Nonostante i migliori sforzi delle agenzie internazionali e del governo del Bangladesh, la capacità di assistenza sanitaria nei campi profughi è limitata e in tutto il Paese è sopraffatta a causa del Covid. Ci sono solo circa 2mila ventilatori in tutto il Bangladesh su una popolazione di 160 milioni di persone. Nel campo profughi dei Rohingya al momento non ci sono letti di terapia intensiva», è l’allarme lanciato da Athena Rayburn di Save the Children. Preoccupa la situazione nel campo di Dadaab, in Kenya, tra i più grandi campi profughi al mondo: da fine aprile sono in vigore rigide misure di ingresso e uscita nella struttura. Per Philippa Crosland-Taylor, direttore di Care «in Kenya una epidemia sarebbe un disastro: 270mila persone vivono a Dadaab, ma il campo ha una capacità di quarantena al massimo per duemila persone e un unico centro sanitario dedicato a coronavirus con soli 110 posti letto».

Non solo: a peggiorare un quadro già drammatico «si aggiungono piogge molto forti che tagliano l’unica strada che porta al campo, ritardando la consegna di aiuti umanitari su cui molti si affidano per sopravvivere». Allarme anche in Sud Sudan. Due contagi si sono registrati in un campo nella capitale, Juba, e uno a Bentiu, nel nord del Paese. Gli esperti hanno avvertito del pericolo rappresentato da un’eventuale diffusione del virus nei campi sovraffollati che ospitano circa 200mila persone in tutto il Paese. Anni di guerra hanno lasciato il Sud Sudan con uno dei sistemi sanitari meno attrezzati del continente africano. La nazione conferma 194 casi di contagio.
Esplosiva anche la situazione in Grecia. Le autorità sanitarie di Atene hanno fatto test a campione tra i migranti e rifugiati che sono arrivati sull’isola di Lesbo, la settimana scorsa, dalle coste della Turchia e hanno trovato i primi due casi di contagio. Le due persone si trovano nel campo provvisorio di Megala Therma, affittato dal ministero delle Migrazioni come centro per mettere in quarantena le persone che arrivano a Lesbo. Le autorità greche hanno prorogato fino al 21 maggio il “lockdown” imposto da marzo.
Nella Siria flagellata da un conflitto interminabile, 68mila persone vivono nel campo di al-Hol, sopportando condizioni climatiche rigide, a rischio alluvioni, rendendole più sensibili alle malattie. Le condizioni di vita all’interno sono inumane. Ogni persona è costretta a vivere in un piccolo spazio di 27 metri quadrati. L’equivalente di un posto auto.

(Avvenire)

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