25 Aprile, 2024
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Il Preside Agresti su sanzioni degli studenti: “Non dimentichiamo, che la Scuola deve fornire istruzione e non educazione”

Gli adolescenti di oggi non sono né più discoli né meno di quelli di ieri: sono adolescenti che cercano, con le proprie azioni di “rivolta” verso gli adulti, di comprendere quali siano i veri limiti alla propria libertà. Libertà che, ora che si affacciano nella società, comincia a collidere con la libertà altrui.

È in questa ottica che occorre osservare i ragazzi che alla “Don Milani”, come in qualsiasi altra Scuola, si picchiano o prendono in giro una docente, come avvenuto pochi giorni fa. Ovviamente a nulla valgono le osservazioni di difesa ad oltranza dei propri figli avanzate dai genitori i quali vogliono far credere che i docenti non siano in grado di mantenere la disciplina in classe. Non dimentichiamo, infatti, che la Scuola deve fornire istruzione, mentre l’educazione ed il rispetto verso il prossimo, soprattutto se si tratta di un professionista, che dona la propria passione a far crescere culturalmente i nostri figli, dovrebbe provenire dalle famiglie.

Insomma i ragazzi fanno il proprio lavoro di adolescenti, violando le regole per imparare a crescere, e lo fanno bene, mentre noi adulti dobbiamo svolgere il nostro lavoro che è quello di indicare la corretta via da seguire per vivere in società. Purtroppo, molto spesso, gli adulti abdicano a questo dovere e quando i propri figli sbagliano, invece di comprendere le azioni didattiche, si rivoltano contro la Scuola. Spesso lo fanno semplicemente per amore dei propri figli e per un senso di rimorso nel senso che si crede che se il proprio figlio sbaglia, forse lo faccia per nostra colpa; magari perché si ritiene non si sia stati sufficientemente accanto a loro. 

Non è la quantità di tempo dedicata ai nostri figli che conta veramente, quanto l’amore che si è offerto loro in quei pochi minuti in cui dedichiamo loro attenzione, se gliela dedichiamo. Se noi li ascoltiamo, dedichiamo loro attenzione, i nostri figli ci ascolteranno e ci dedicheranno attenzione, se nemmeno ci voltiamo quando ci chiamano, quale amore avremo mai loro dato?

Ma se non si comprende questo, allora si resta convinti che l’errore dei ragazzi sia dovuto a nostra causa. Allora non si difendono i nostri figli, si difende se stessi. Allora si brandisce la spada della difesa ad oltranza attaccando i docenti, e sbagliando ancora peggio. Allora si confonde l’azione didattica con quella che è una azione giudiziaria e ci si appella a forme di rispetto burocratico, forme di rispetto necessarie in tribunale, perché servono a garantire correttezza e giustizia, ma che nulla hanno a che fare con le azioni didattiche della Scuola. Ad esempio che insegnamento ne avranno tratto i due ragazzi che si sono picchiati di santa ragione a mensa ma che la hanno fatta franca solo perché il regolamento, pur approvato, non era stato ancora reso pubblico sul sito della Scuola? Il tribunale, con giudici ed avvocati, ha l’obiettivo di fare giustizia secondo i canoni legislativi, la Scuola intende invece insegnare come ci si comporta.

Davanti a queste reazioni, alla minaccia di denunce per i reati più fantasiosi, alle minacce di violenza alle minacce in genere, spesso i docenti lasciano correre tanto le conseguenze della disattenzione saranno solo per quei ragazzi.a parte la deontologia professionale, chi glielo fa fare di ascoltare urla e minacce dei genitori?

È necessario però comprendere che occorre che la comunità scolastica reagisca a episodi di indisciplina e di scarso rispetto delle persone e delle regole, non certamente per “punire” qualcuno, non essendo affatto questo lo scopo di eventuali decisioni strategiche per il controllo comportamentale e disciplinare, proprio perché il consiglio di classe non è un tribunale che debba indagare, soppesare le prove e quindi giudicare la colpevolezza o l’innocenza degli alunni. Scopo delle decisioni del consiglio di classe è solo quello di insegnare ai ragazzi che certi atti o atteggiamenti, compiuti in età più matura, potrebbero portare a gravissime conseguenze civili o penali e che le regole della convivenza civile vanno rispettate sempre, per consentire a tutti di convivere serenamente e senza oppressioni o prevaricazioni (verbali o fisiche) di nessuno su nessun altro, neanche se per scherzo o per gioco. Anzi, tutti gli atti effettuati dagli adolescenti, in quanto minori di 14 anni, sono da considerarsi tutti “involontari” o fatti “per gioco” (perché per la Legge Italiana non sono imputabili); ne consegue che la stessa idea di “punizione” o di “sanzione” non debba nemmeno essere presa in considerazione a Scuola. Lo scopo deve essere solo quello di individuare le corrette strategie di controllo comportamentale dei discenti, come mezzo di insegnamento in primis per i ragazzi coinvolti ma soprattutto per tutti gli altri.

Non si può dimenticare che le regole non sono limiti alla libertà individuale, ma la garanzia della libertà di tutti. È necessario stabilire insieme, Scuola e famiglia, le modalità e le strategie di controllo comportamentale degli alunni, eventualmente prendendo decisioni impopolari, ma che hanno il solo scopo di far comprendere ai ragazzi che hanno sbagliato in qualcosa e la comunità ha reagito. Infatti, la scuola non è un tribunale che pesa con il bilancino le colpe, cercando colpevoli o innocenti e comminando sanzioni o assolvendo, ma molto più semplicemente stigmatizza il comportamento scorretto ed eventualmente allontana chi non abbia seguito le regole, senza voler per questo verificare chi sia il colpevole iniziale e chi “abbia seguito l’esempio”. Le “sanzioni” (preferiamo chiamarle insegnamenti o moniti) generalmente non hanno alcuna influenza sulla carriera scolastica dei ragazzi. È come quando, ad esempio, viene assegnato un “2” in matematica, questo non pregiudica una eventuale promozione o addirittura una valutazione elevata, se si riesce a recuperare la carenza didattica; allo stesso modo le “sanzioni” non hanno conseguenze sul voto finale se il ragazzo mostrerà di avere compreso l’errore. In pratica le sanzioni della scuola non vogliono essere mai punitive, ma tendono sempre a insegnare qualcosa agli alunni. Questo è il motivo per il quale alle riunioni sono sempre invitati e ben accolti tutti i genitori coinvolti ed i rappresentanti di classe, e l’obiettivo finale è quello di far comprendere ai ragazzi la loro responsabilità verso la comunità scolastica in vista della vita reale. In quest’ottica la Scuola rigetta le pressioni di “clemenza” da parte dei genitori in quanto sarebbe assolutamente deleterio per i ragazzi stessi trovarsi ancora una volta “protetti” dai loro genitori, mentre è bene che comprendano come le loro azioni portino a conseguenze dalle quali sempre meno i genitori potranno proteggerli: è cioè bene che si rendano conto in una situazione scolastica (assolutamente controllata e limitata all’ambito della Scuola) cosa può comportare un gesto al di fuori delle regole civili, piuttosto che sentirsi ancora una volta protetti e fare in un secondo tempo delle azioni dalle quali nessuno potrebbe più proteggerli realmente. Per quanto possa essere dura, la “sanzione” va interpretata come un metaforico “ceffone” salutare dato a dei ragazzi che non si sono comportati bene. Certamente da tale “sanzione” i ragazzi avranno imparato che occorre essere responsabili, cioè conoscere cosa possa accadere come reazione al loro operato. Questo “messaggio” serve soprattutto al loro bene anche perché si tratta di una sanzione “minima”, in seguito potrebbero incorrere in situazioni più gravi. Un approccio “debole” all’atteggiamento non civile dei ragazzi provocherebbe la “lettura”: “posso fare quel che voglio, tanto i miei genitori mi caveranno sempre di impaccio!”, con le gravi conseguenze che possiamo osservare nelle cronache di tutti i giorni. Se siamo tutti convinti che la pace sia l’obiettivo finale, occorre però anche applicare il pugno duro della severità, che non significa violenza o ingiustizia gratuita, ma mostrare che le regole ed il rispetto degli altri vanno assolutamente salvaguardati e che chi trasgredisce va incontro a reazioni: è questo il messaggio educativo che si vuole trasmettere. Nessuno dovrà credere che i ragazzi siano così “segnati” per sempre, anzi occorre considerare metaforicamente i loro errori come un primo “battere di ali” di giovani che devono riconoscere la propria forza ed i propri limiti ed imparare se quel volo può condurre verso il libero cielo o contro una dura parete, non insegnarglielo significa abbandonarli a se stessi lasciandoli nel pericolo.

A chi chiede di far frequentare comunque la scuola e non allontanare nessuno dalla comunità scolastica, va chiarito che i ragazzi non sono comunque lasciati soli dai docenti, che li terranno sempre e comunque informati dei compiti da svolgere e delle lezioni da studiare, e che comunque la reazione di una comunità a chi non si comporta correttamente e secondo le sue regole, è quella di allontanare chi non comprenda le corrette modalità del vivere civile e le ragioni dell’errore commesso.

A chi sostiene che la giusta punizione sarebbe assegnare compiti ed esercizi da svolgere va chiarito che svolgere compiti ed esercizi deve essere visto come un “premio” e non come una “punizione” e su questo la famiglia deve collaborare con la Scuola, infatti se fare i compiti viene inteso come una punizione e non come un metodo di apprendimento e verifica, l’assurdo e contraddittorio messaggio che verrebbe trasmesso sarebbe che stare a Scuola e studiare siano un punizione! Ma allora comportandosi bene non si dovrebbe studiare né esercitarsi!

A chi sostiene che mantenere a casa uno studente equivalga a fargli un regalo, va sottolineato come sia importante che proprio i genitori facciano comprendere come il vero premio sia studiare e restare con i compagni a scuola, piuttosto che stare a casa allontanato dalla comunità. Ora se ai bambini più piccoli può essere difficile far comprendere il concetto di comunità, per i più maturi deve essere ben chiarito cosa significhi il rispetto del prossimo in quanto il concetto di “prossimo” dovrebbe essere ben chiaro.

Quando fatti come quelli citati, o anche più gravi, avvengono, è molto importante mostrare che la comunità scolastica reagisca, non per punire, ma per insegnare che certi atteggiamenti non sono accettabili e non sono consoni al convivere civile. I docenti ripetono continuamente in classe quali siano i corretti comportamenti di rispetto del prossimo, che le famiglie avrebbero dovuto insegnare, ma alcuni (non peggiori né migliori di altri) vogliono comprendere con i fatti quale sia il limite cui possono giungere. Si tratta di un atteggiamento “normale” non patologico, anzi a volte salutare perché è praticamente una domanda che i ragazzi pongono e vogliono una risposta: “Cosa mi succede se faccio questo?”. A questa domanda non retorica la Scuola e la Famiglia hanno il dovere di rispondere in modo chiaro, affinché il ragazzo non impari che quel limite non esista e ne abbia gravi conseguenze quando avrà la maggiore età quando non ci saranno più i genitori a difendere le loro spalle.

Se in una comunità, qualcuno manca di rispetto ad un membro di questa, occorre che questa reagisca per difendere chi sia stato offeso. Nel caso della comunità scolastica, invece, la reazione non è per difesa o per vendetta: non interessa a nessuno, men che meno ai docenti (che invece di riunirsi il pomeriggio, avrebbero molto di meglio da fare), e poi non avrebbe senso punire chi non abbia capito o chi “abbia posto una domanda”. Nella Scuola si tratta di un insegnamento: facendo avere al ragazzo una minima conseguenza dell’atto da stigmatizzare, allo scopo di fare in modo che chi abbia sbagliato ne subisca quelle minime conseguenze nella comunità “ovattata” della Scuola, questi non ripeterà in futuro l’errore, soprattutto quando le conseguenze potrebbero essere molto più serie e gravi. Conseguenze cui potrebbe essere sottoposto chi, invece, la facesse “franca” o verso cui la Scuola non abbia mostrato le conseguenze, seppur minime.

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