5 Dicembre, 2025
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I miei viaggi: Sperlonga, una perla del litorale laziale (parte 1 di 3)

Speluncae: il gioiello incastonato nel Tirreno dove il mito abbraccia il mare

Dove le onde si infrangono contro le scogliere e la leggenda s’intreccia alla memoria, nasce il fascino eterno di Sperlonga. Non è solo un borgo, ma un respiro antico che vibra tra le pietre bianche e il profumo salmastro del Tirreno. Una perla rilucente, incastonata su uno sperone roccioso che si tuffa nel mare, a metà strada tra Roma e Napoli, Sperlonga incanta come un verso di poesia scolpito nella roccia. Qui, il tempo non scorre, si posa. Camminando tra le sue stradine candide, si ascolta l’eco di epoche lontane, il sussurro delle ninfe, il coraggio dei pescatori, la grazia delle donne come Giulia Gonzaga, che sembrano uscite da un affresco rinascimentale. Sperlonga è un racconto senza fine, una favola che si rinnova ogni giorno sotto il sole del Lazio.

Come scrisse Michele Mari: “Le leggende non sono bugie, ma verità che hanno scelto un abito poetico per sopravvivere”.

Qui, le leggende vivono. Tracce di presenza umana risalgono al Paleolitico superiore, con reperti dell’uomo di Neanderthal rinvenuti nella grotta che fu poi inglobata nella Villa di Tiberio. Il nome stesso di Sperlonga deriva probabilmente da speluncae, le grotte marine che Tacito e Svetonio ricordano nei loro scritti, alcune delle quali sono ancora oggi raggiungibili solo via mare, tra gli speroni rocciosi dei Monti Aurunci.

Plinio il Vecchio, nel Libro III della sua “Naturalis Historia”, menziona Sperlonga come “locus Speluncae”, dove descrive la costa tirrenica.

Sperlonga è il luogo dove la pietra racconta, il mare ricorda e il vento canta. È il punto in cui la storia si fa leggenda e la leggenda si fa casa. Un angolo di mondo dove il passato non è passato, ma presente che respira.

 

La ninfa Sperlonga e il terremoto di Giove

Una leggenda locale, avvolta nel profumo salmastro del Tirreno e nel sussurro delle onde, narra di una ninfa di nome Sperlonga, così bella da far vacillare il cuore di Giove. Il dio, rapito dalla sua grazia, decise di conquistarla non con parole, ma con la forza primordiale della terra. Fu così che, in un impeto divino, provocò un terremoto che scolpì la costa in forme spettacolari: falesie abbaglianti e grotte segrete, dove il bianco della roccia si tuffa nel turchese profondo del mare.

Pur non attestata nei testi classici, questa narrazione è parte integrante del folklore locale. La figura della ninfa Sperlonga e l’amplesso divino con Giove sono elementi mitopoietici, nati per spiegare la bellezza selvaggia e quasi ultraterrena del paesaggio. Non si tratta di una falsità, ma di una verità poetica, come direbbe Michele Mari: una leggenda che ha scelto l’abito del mito per sopravvivere.

Sperlonga non è solo pietra e mare, ma eco di un amore divino. Ogni grotta è un sussurro, ogni falesia una carezza di Giove alla sua ninfa. Qui la terra ha tremato per amore, e il mare ha custodito il segreto. Chi cammina su queste rive, ascolta ancora il battito del cuore degli Dei.

 

Amiclae: il silenzio di una città perduta

La leggenda, priva di conferme storiche, ma ricca di fascino, vuole che Sperlonga sia ciò che resta della mitica Amyclae, città fondata dai Laconi, popolo spartano giunto sulle coste del Lazio. Citata da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”come “tacitae Amyclae”, la città è avvolta da un mistero che si perde tra le pieghe del tempo.

Si narra che Amyclae fu abbandonata per cause tanto poetiche quanto inquietanti. Alcuni racconti parlano di un’invasione di serpenti, che gli abitanti, forse seguaci di una setta pitagorica, non vollero uccidere, rispettando il precetto di non nuocere agli esseri viventi. Altri sostengono che gli amyclani, votati al silenzio rituale, non diedero l’allarme all’arrivo dei nemici, forse perché troppe volte avevano gridato al pericolo invano. “Tacitae Amyclae”, così la chiamava Virgilio, città che regnava nel silenzio e morì nel silenzio.

Queste versioni, pur prive di fondamento archeologico certo, sono parte del patrimonio mitico della zona compresa tra Sperlonga, Fondi e Terracina. Le ricerche moderne hanno individuato resti di un insediamento pre-romano sul Monte Pianara, che alcuni studiosi ipotizzano possa essere la vera Amyclae. Tuttavia, nessuna prova definitiva collega Sperlonga alla città scomparsa.

Amyclae è il sussurro di una civiltà che scelse il silenzio come scudo, e il silenzio divenne la sua rovina. Tra le onde che lambiscono Sperlonga, forse ancora si ode il respiro di chi non volle gridare e il mare, custode di segreti, continua a raccontare la storia di una città che svanì senza un suono.

 

La “Grotta di Tiberio”: dove Ulisse incontra l’imperatore

Sperlonga, incastonata tra cielo e Tirreno, è attraversata dalla via Flacca nuova, realizzata nel 1958. Essa ricalca in parte l’antico tracciato romano voluto dal censore Lucio Valerio Flacco nel 184 a.C., ma lo abbandona per infilarsi in gallerie diritte, rinunciando alla strada panoramica che abbraccia i promontori a picco sul mare, dove lo sguardo si perde in visioni mirabili e il cuore si riempie di stupore.

Fu proprio durante i lavori di costruzione della nuova via che la terra, come per incanto, restituì alla luce uno dei tesori più straordinari dell’archeologia romana: i reperti della Grotta di Tiberio, un antro naturale che l’imperatore aveva fatto trasformare in un raffinato ninfeo, decorato con statue marmoree di soggetto omerico, immerse in giochi d’acqua e silenzi solenni.

Le statue, rinvenute in migliaia di frammenti, rappresentano quattro episodi dell’epica di Ulisse: il cosiddetto “Pasquino”, con Ulisse che trascina il corpo di Achille; Scilla che assale la nave dell’eroe; l’accecamento di Polifemo, il ciclope e il ratto del Palladio, simbolo della protezione divina di Troia.

La frantumazione delle statue è attribuita, secondo alcune ipotesi, ai monaci altomedievali che si insediarono nella villa e ne trasformarono la grotta in luogo sacro, come testimonia l’iscrizione “Ave Crux Sancta”.

Un’iscrizione rinvenuta sul sito riporta i nomi di Agesandro, Polidoro e Atenodoro, scultori rodii, gli stessi autori del celebre Laocoonte conservato ai Musei Vaticani.

I reperti sono oggi custoditi nel Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga, fortemente voluto dagli abitanti per evitare il trasferimento a Roma dei reperti. Il museo espone anche altri pregevoli frammenti della villa e consente di esplorare le rovine all’aperto e la grotta, in un’esperienza immersiva nella grandezza dell’architettura imperiale.

La scelta di Tiberio di decorare la sua villa con episodi omerici potrebbe derivare dalla leggenda che Sperlonga sia il luogo dell’incontro tra Ulisse e Circe, la maga che lo trattenne per un anno. Il promontorio del Circeo, visibile dalla grotta, alimenta questa suggestione mitica.

Negli ultimi anni del suo regno (14–37 d.C.), Tiberio si ritirò dalla caotica Roma, governando da lontano, immerso nel lusso e nella quiete della sua dimora sul mare. Durante un sontuoso banchetto nella grotta, narrano Svetonio e Tacito, un crollo improvviso uccise alcuni servi. Il generale Seiano salvò l’imperatore, proteggendolo con il proprio corpo, guadagnando grande favore… fino alla sua tragica caduta.

Sperlonga è il luogo dove la storia si fa leggenda, dove il marmo racconta il mito e il mare conserva la memoria. Qui, tra le onde e le rovine, si respira il respiro degli Dei. Ogni passo è un viaggio nel tempo, dove l’arte, la natura e il sogno si fondono in un eterno abbraccio.

 

per leggere la seconda parte

 

Riccardo Agresti

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