La veglia natalizia
Nel presepe napoletano, tra pastori indaffarati, mercanti dal volto scavato, zampognari che soffiano fiati d’inverno e osti che rimescolano pentole fumanti, affiorano anche cibi d’ogni sorta. Sembrano parlare, con il loro silenzioso abbondare, e ci conducono alla cena della Vigilia di Natale, che ha anch’essa un profondo significato simbolico.
Questa cena porta con sé un significato profondo, al tempo stesso simbolico, culturale e religioso. Nelle comunità cristiane d’Italia e dei Paesi latini è un momento sospeso: una soglia di raccoglimento e purificazione, una preparazione dell’anima al Natale. Si celebra la nascita di Gesù, la luce che entra nel mondo, la speranza che si riaccende. In quello stesso spirito, si rivolgono pensieri a chi non c’è più: anime care che, secondo la promessa cristiana, rinasceranno nella vita eterna. La Vigilia diventa così un abbraccio di memoria, attesa e silenziosa tenerezza: un invito alla condivisione e alla riflessione sui valori dell’amore e della pace.
La parola “vigilia” viene dal latino vigiliae: veglia, attesa ed effettivamente il convivio serale del 24 dicembre è una veglia simbolica, una luce accesa nella notte in onore dell’imminente arrivo di Cristo.
In molte tradizioni cattoliche, la cena della Vigilia osserva la forma di un digiuno rituale: non una privazione, ma un gesto di rispetto. È la cosiddetta cena “di magro”, che rinuncia alla carne rossa, simbolo di opulenza e festa, e si rivolge invece a cibi più umili, più puri, come se la tavola dovesse imitare la povertà della grotta.
L’assenza di carne rossa deriva dalla tradizione del digiuno vigiliale, un retaggio antichissimo e largamente diffuso, perché la carne era simbolo di festa, ricchezza e piacere e rinunciarvi significava prepararsi alla luce con umiltà.
I piatti di magro, spesso a base di pesce, evocavano il Cristo ΙΧΘΥΣ (il pesce, simbolo dei primi cristiani). Da qui nascono tradizioni regionali molto radicate come la “serenata ai capitoni” a Napoli, il baccalà in Veneto, l’anguilla nel Lazio, lo stoccafisso e la “scanata” in Sicilia.
Tutto questo contrasta volutamente con l’abbondanza dell’osteria del presepe, dove il mondo continua la sua baldoria, mentre la famiglia si raccoglie in silenzio.
La Vigilia diventa anche questo: una grande chiamata alla famiglia. Non per caso si ripete da secoli: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”. Forse, come ammiccano i più pratici, per ragioni climatiche; ma il cuore sa che Natale parla alle radici, alla casa, alle tradizioni domestiche che simboleggiano amore, unità, solidarietà tra i familiari e, più in generale, tra gli esseri umani.
Nella notte in cui il cielo sembra respirare insieme alla terra, la tavola della Vigilia e il presepe si rispecchiano: entrambi narrano il mistero di una nascita che appartiene al mondo e alla storia, ma anche alle nostre piccole cucine, ai nostri silenzi, ai nostri affetti.
La cena di magro
La cena della vigilia, rigorosamente “di magro”, si componeva a Napoli di varie portate:
“I cibi di rito della cena della vigilia sono i vermicelli, il cavolfiore, i pesci di ogni specie, e massime il capitone e l’anguilla, gli struffoli (pasta dolce con miele e tagliuzzata), i mostaccioli, i susamielli, ogni sorta di seccumi, le ostriche, ed altri camangiari di magro, che s’imbandiscono a seconda del gusto e dell’agiatezza delle famiglie”
Questo riporta Francesco Mastriani nel saggio “Natale a Napoli”, che si trova in “Costumi e tradizioni di Napoli e contorni descritti e dipinti”, un testo della fine dell’Ottocento diretto da Francesco De Bourcard.
Il banchetto della Vigilia e quello di Natale, in Campania, hanno un carattere religioso e, in particolare a Napoli, il cenone è intriso di una simbologia ricca di significati, gesti rituali e antiche tradizioni che affondano le loro radici in epoche remote. Le portate sono chiamate “divozione”, e ogni piatto è un segno di rispetto per antiche usanze. Ogni pietanza è un gesto rituale, un omaggio ad usanze così antiche da precedere il Cristianesimo stesso. Infatti molte ricette della Vigilia sono figlie dei riti propiziatori pagani di fine anno, quando gli uomini cercavano negli elementi della natura un segno di benevolenza per il futuro.
Per questo, alla Vigilia non si cucina mai carne bovina, la carne rossa, simbolo di ricchezza e sangue, ma si sceglie il pesce: cibo “puro”, ritenuto libero da spiriti maligni secondo le credenze popolari; creatura dell’acqua, che è l’elemento vitale per eccellenza, grembo della vita e simbolo di rinascita. Così il mare entra nelle case: vongole che schiudono desideri, baccalà che porta fortuna, capitoni che fendono la notte come serpenti addomesticati dalla fede.
Un posto per chi non c’è più
Anticamente, in molte famiglie, la tavola restava apparecchiata anche dopo il cenone, con un posto in più. Non era per un ritardatario: era per i defunti, che, si diceva, nella notte di Natale tornavano a visitare i luoghi amati. Poiché non si sapeva sotto quale forma potessero presentarsi, si invitava a cena un povero, simbolo di Cristo ma anche possibile incarnazione dell’anima di un caro. Era un gesto di amore, di timore, di speranza: una porta socchiusa tra i mondi.
In questa notte che unisce vivi e morti, passato e presente, cucina e sacralità, la famiglia si raccoglie. Non per caso si ripete da secoli: “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. Il Natale chiede radici: vuole la casa, la storia, la memoria. Vuole che ci si sieda vicini, non per abitudine, ma per ricordare che, come la nascita che si attende, anche noi possiamo rinascere, se abbiamo accanto qualcuno da amare.
Il simbolo del male
Il capitone (Anguilla anguilla), pesce osseo membro della famiglia degli Anguillidae, ha un corpo serpentiforme ed è la femmina dell’anguilla; può superare il metro di lunghezza e raggiungere i 6 kg di peso, mentre il maschio, molto più piccolo (circa 60 cm e 200 g), è detto “ceco”.
Da notare che le anguille migrano per raggiungere il Mar dei Sargassi (nell’Atlantico), dove depongono le uova e poi muoiono. I leptocefali, le larve schiuse dalle uova di questi pesci, migrano impiegando tre anni per tornare nel Mediterraneo, in Europa e in Nord Africa, da dove provenivano i loro genitori, risalendo la corrente dei fiumi. Nel presepe, il male è collocato nella parte superiore della rappresentazione, da dove provengono i fiumi, proprio là dove le anguille iniziano simbolicamente un nuovo ciclo di vita.
Il capitone ha un aspetto sinistro. In effetti, è un piatto interpretato come simbolo della paura dei cristiani: il serpente, simbolo del male nella Bibbia. Viene acquistato vivo (può resistere a lungo fuori dall’acqua), ucciso mozzandogli la testa, poi tagliato a fette per essere cucinato. Se ne consuma la carne cotta per esorcizzare le paure, sconfiggendo simbolicamente il diavolo e auspicando un periodo di pace e prosperità nel nuovo anno.
Motivi più pratici e materiali portano però a pensare che, dietro questa credenza, vi sia una motivazione pratica: il capitone è un pesce molto grasso, in passato davvero comune e accessibile anche a chi aveva pochi mezzi economici, ideale per chi necessitava di mangiare qualcosa di sostanzioso. Perciò, la superstizione ha avuto la funzione di incoraggiare la gente a nutrirsene. Attualmente l’anguilla europea è considerata una specie in pericolo critico di estinzione.
Il pasto dei Saturnali romani
Prima del dessert, quando il cenone sembra placarsi e il tempo rallenta il suo respiro, sulla tavola compaiono i piccoli tesori della frutta secca: fichi zuccherini, noci robuste, mandorle d’ambra, pistacchi dal cuore verde, nocciole rotonde e arachidi dal sapore rustico e con essi i datteri, scuri come la terra del deserto, lucenti come una promessa.
Non sono semplici bocconi di fine pasto: sono tracce di antichi banchetti, ombre lontane dei Saturnali romani, quando l’inverno si illuminava di feste e il mondo, per pochi giorni, si capovolgeva. In quei riti pagani si scambiavano noci come monete di buon augurio, fichi come simbolo di fertilità, frutti secchi come pegni di abbondanza. Nutrimenti che duravano a lungo, adatti ai mesi gelidi, carichi di significati nascosti, continuità culturale di antichi riti.
Ancora oggi, queste piccole ricchezze vengono portate in tavola prima del dolce, quasi fossero un ponte tra ciò che è stato e ciò che deve venire. La frutta secca racchiude il calore dell’estate, custodito in un guscio: è energia compressa, promessa di vita, auspicio di prosperità per l’anno che nasce.
I datteri, poi, aggiungono un soffio d’Oriente: ricordano le terre da cui provengono le radici del Natale, le oasi che salvano i viandanti, la dolcezza che si scopre dopo un cammino difficile. Sono cibo biblico e pagano insieme, memoria di carovane, di nomadi in viaggio verso una luce.
Un rito silenzioso che rinnova un’antica eredità: accogliere la buona sorte, ricordare gli antenati, invitare l’abbondanza a sedere con noi per l’anno che verrà.
Gli struffoli per interrompere la linearità del tempo
Fra i dolci del Natale, nessuno porta con sé un’eco più antica degli struffoli, piccole sfere dorate che scintillano di miele e memoria. La loro preparazione, come accade per il capitone, affonda le radici in un gesto rituale: l’impasto, prima filato in lunghi cordoni, viene tagliato a piccoli frammenti, quasi a riproporre, in forma simbolica, il corpo spezzato di un serpente.
In questo atto si cela un’antica speranza: interrompere la linearità del tempo, fermare per un istante il presente che scivola via, e aprire la porta a un ciclo nuovo, più giusto e propizio. Così ci ricorda Roberto De Simone, quando parla dei riti che attraversano sotterraneamente la tradizione partenopea, sopravvivendo sotto il velo del folklore.
“Da antiche fonti collegate al mondo pagano sappiamo che molti cibi graditi ai morti possono essere costituiti dai semi. Oltre il melograno, frutto esemplare in tal senso, pietanze a base di fave e lupini, consumate in periodi particolari, rappresentano evidentemente dei cibi funerari: alimento a base di semi è anche tutta la cosiddetta frutta natalizia come mandorle, noci, nocciole, castagne, pinoli. Il senso infero di questi frutti si evince dal fatto che a essi, come leggiamo nella favolistica popolare, sono attribuiti straordinari poteri magici.” e ancora “Con ingredienti a base di mandorle, di miele e di zucchero sono confezionati i classici dolci natalizi – raffioli, torroni e confetti, pasta di mandorle o pasta reale. … rappresentativo della tradizione natalizia è anche il sesamello o susamiello, confezionato con fichi secchi e odorosi semi di sesamo: ingredienti che riconducono al mondo degli inferi. Un tempo v’era inoltre il rito di lasciare i dolci natalizi e la frutta secca a tavola anche dopo che si era sparecchiata la mensa, quasi dovessero rimanere a disposizione delle anime vaganti di notte”.
Una volta fritti, gli struffoli vengono raccolti in forme tonde, corone, montagne luminose, piccoli soli domestici, e il miele li avvolge come una benedizione. È un gesto che viene da lontano: il dolce d’api, simbolo di fecondità e buon auspicio nei culti mediterranei, diventa promessa di dolcezza per l’anno che nasce, collante reale e simbolico della comunità riunita attorno alla tavola.
Nell’antico Natale napoletano, soprattutto nei conventi femminili, preparare gli struffoli era un rito corale: mani diverse impastavano, friggevano, decoravano, creando migliaia di piccole offerte da donare a familiari e benefattori. Un gesto semplice che, nella sua umiltà, racchiudeva un intero universo di gratitudine e reciprocità.
Così gli struffoli non sono soltanto un dolce: sono un amuleto domestico, una piccola costellazione dorata che illumina la cucina nelle notti di dicembre. Ogni granello è un granello di tempo, un frammento di futuro, un augurio.
Brano tratto dal libro “Il senso nascosto del Presepe” disponibile solo on line al link: https://bookabook.it/libro/il-senso-nascosto-del-presepe/
Riccardo Agresti


