5 Dicembre, 2025
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L’entusiasmante ritrovamento dei Bicchieri di Vicarello

Si riceve e si pubblica

Nel gennaio 1852, nel comprensorio delle antiche fonti termali di Vicarello, negli anfratti di rocce dai quali sgorgava una risorgiva della locale acqua curativa, venne ritrovata una ricca stipe votiva contenente reperti la cui datazione più antica si ritenne fosse da collocare nell’VIII sec. a.C.

In effetti la frequentazione antropica di quei luoghi, con intenti terapeutici, si poteva ben ricondurre all’epoca etrusca, ma il grande sviluppo e il loro utilizzo si ebbe soprattutto nel corso dei secoli successivi ad opera dei Romani, al punto che l’imperatore Domiziano – sembrerebbe proprio allo scopo di frequentare le terme – si era fatto costruire una villa che oltre un millennio dopo, erroneamente, sarebbe stata attribuita a Marco Aurelio, per cui alcuni studiosi ipotizzarono che il moderno toponimo Vicarello provenisse dalla deformazione di un originale Vicus Aurelius. Peraltro, a onor del vero, va detto che i ruderi della villa in questione sono sicuramente di epoca domizianea – ovvero fine I sec. d.C. – anche se non riconducibili con totale certezza allo stesso imperatore Tito Flavio Domiziano.

Infatti non vi sono abbastanza elementi di giudizio in proposito, mentre vi è la buona probabilità che in realtà la villa appartenesse a Lucio Iunio Cesennio Peto, console nel 61, amico di Vespasiano (che era il padre di Domiziano) e comes dello stesso Domiziano: si trattava quindi di un notabile abbastanza importante e, per di più, vicino ai Flavi. Si è pertanto ipotizzato che il toponimo odierno potrebbe piuttosto indicare che nei vari passaggi di potere tra le famiglie che nel tardo Medio Evo ebbero possesso di quei luoghi – in successione i Vico, gli Anguillara, gli Orsini – furono forse i primi, i Vico, quelli che lasciarono una traccia più duratura nella toponomastica locale.

Il piccolo ma pittoresco borgo di Vicarello, frazione di Bracciano (ma topograficamente molto più vicino a Trevignano Romano), è adagiato sulla sponda settentrionale del Lago di Bracciano (il romano Lacus Sabatinus), mentre le terme – oggi in disuso, ma delle quali è in discussione la possibilità di un rilancio – sono situate leggermente più a nord (a ca. 500 m di distanza, in posizione adiacente al borgo stesso), immerse nel verde del circostante territorio collinare che è denominato Bagni di Vicarello.

Nell’antichità romana le terme erano note come Aquae Apollinares, perché dedicate al dio Apollo, il quale (qualora fosse stato offeso) scoccava le proprie frecce diffondendo così perniciose pestilenze, ma d’altro canto (qualora fosse stato opportunamente venerato) poteva invece rivelare un proprio aspetto benigno quale dispensatore di guarigioni: in effetti, nei panni del portatore di morte, sovviene alla mente il “feral morbo” scatenato dal “figlio di Latona e di Giove” nel campo degli Achei per cui “la gente perìa” (Iliade I, vv. 10-13, nell’antica e apprezzata versione di Vincenzo Monti), mentre in altre situazioni Febo Apollo – come dio del Sole – sapeva mostrare al genere umano il proprio aspetto più benigno e rigeneratore.

In epoca romana le Aquae Apollinares avevano acquisito una tale importanza da essere indicate come una mansio nei vari itineraria utilizzati dai vari viaggiatori per i loro grandi trasferimenti: e a tale riguardo, tra gli altri, un esempio importante lo abbiamo nell’itinerarium del Codex Vindobonensis 324, noto come Tabula Peutingeriana, conservato a Vienna nella Biblioteca Nazionale d’Austria, che è una copia medievale (dei secc. XII-XIII) di un’antica carta romana.

Tuttavia nel corso del Medio Evo le Aquae decaddero di importanza e il loro utilizzo fu abbandonato; divenute proprietà della Chiesa verso la fine del XIV secolo, rimasero ancora improduttive, finché nel 1573 papa Gregorio XIII Boncompagni volle che il comprensorio venisse donato al Collegio Germanico (poi divenuto Germanico Ungarico) il quale, a partire dal 1737, provvide a rimettere in funzione l’impianto termale, sia pure inizialmente non a pieno regime. Tuttavia, poiché nei decenni successivi l’utilizzo delle terme andò richiamando sempre più malati, il Collegio ritenne di dover demolire alcune parti del vecchio stabilimento per costruire una struttura termale più grande, accogliente ed efficiente di quella che era stata avviata un centinaio di anni prima.

Pertanto si procedette ai lavori di costruzione di un nuovo impianto e fu in quell’occasione che il 18 gennaio 1852 venne rinvenuta la stipe votiva cui abbiamo accennato all’inizio.

Il ritrovamento apparve subito di enorme importanza storico-archeologica e il suo studio venne quindi affidato al padre gesuita Giuseppe Marchi, valente figura di archeologo e numismatico (nonché Maestro e mentore di quel Giovanni Battista De Rossi che fu il mitico scopritore delle Catacombe romane di San Callisto), con il compito di stendere una dettagliata relazione del ritrovamento; il padre gesuita produsse lo studio La stipe tributata alle divinità delle Acque Apollinari scoperta al cominciare del 1852 – stampato l’anno successivo dalla Tipografia delle Belle Arti, di Via in Arcione in Roma – che ancora oggi rimane uno scritto fondamentale [e facilmente consultabile in rete] per seguire i vari particolari della scoperta della stipe.

Nel 1930 la gestione dell’impianto termale fu affidata dal Collegio Germanico Ungarico alle suore tedesche della Congregazione di Nostra Signora di Mühlhausen, finché durante la Seconda Guerra Mondiale l’edificio principale delle terme venne occupato dalle truppe tedesche per essere adibito a piccolo ospedale militare. Nel dopoguerra le terme furono riattivate e rimasero funzionanti fino ai primissimi anni Settanta, allorché la struttura termale fu definitivamente abbandonata per essere poi ceduta (nel 1983) ad una società privata che ne avrebbe voluto fare un complesso alberghiero-ricettivo di lusso, comprendente campi da golf e infrastrutture commerciali, trovando però varie difficoltà nell’attuazione di un simile progetto ambizioso, che rimase quindi sulla carta.

Nel frattempo, negli anni dal 1974 al 1977 l’archeologo Antonio Maria Colini diresse nel comprensorio dei Bagni di Vicarello una campagna di scavi che portò al ritrovamento – tra gli altri reperti – del c.d. Apollo di Vicarello: era il torso privo del braccio destro di una copia romana di statua originale greca del dio, realizzata in marmo pentelico nella prima metà del II sec. a.C.; rinvenuto nel 1977 nel ninfeo adiacente alle terme, il torso fu per lungo tempo conservato a Civitavecchia, ma è ormai esposto come prestito permanente nel Museo Civico di Bracciano fin dai tempi della mostra “Il culto del dio Apollo a Vicarello”, ivi organizzata nel 2011 per celebrare l’appena avvenuto completamento del restauro della statua. Attualmente la località Bagni di Vicarello non è aperta al pubblico ed è in forte abbandono ma, data la sua rilevante importanza storico-archeologica, è allo studio il progetto di rivalorizzarla e aprirla a studiosi e visitatori.

Interessante, complessa e in qualche modo sofferta è la storia della stipe votiva ritrovata nel 1852. Inizialmente essa conteneva: 34 vasi, di cui 3 d’oro, 25 d’argento e 6 di bronzo; aes rude (ca. 400 kg) ed aes grave signatum, (ca. 1400 pezzi); 2136 monete romano-campane e 688 monete di Roma repubblicana; un numero ingente ma imprecisato (a causa dei numerosi furti avvenuti già nell’immediatezza del ritrovamento) di monete romane imperiali dall’età di Augusto fino agli inizi del IV secolo; un centinaio di monete di città etrusche, osco-sannite e magnogreche (principalmente Populonia, Vetulonia, Tuder, Aesernia, Neapolis, Thurii), nonché strumenti litici di tarda età preistorica (soprattutto coltelli e punte di freccia) e piatti e statuine in bronzo.

Purtroppo, come già accennato, fin dall’epoca del ritrovamento della stipe vennero sottratti numerosi reperti che finirono sul mercato clandestino: peraltro, i furti non si registrarono sono nell’Ottocento ad opera dei vari cosiddetti “antiquari” (che altro non erano che “tombaroli”, spesso in possesso di notevoli conoscenze storico-archeologiche, ma in definitiva soltanto interessati a ricavare guadagni da scavi clandestini e/o da furti occasionali), perché il 22 luglio 1948 sparirono dai Musei Vaticani perfino tre tazze in oro, che non vennero mai più ritrovate!

I reperti della stipe votiva confluirono inizialmente nel Museo Kircheriano per il tramite della Compagnia di Gesù (la Societas Iesu alla quale appartenevano i membri del Collegio Germanico Ungarico), ma dopo varie vicende intervenute con l’Unità d’Italia e a seguito della Seconda Guerra Mondiale, oggi il grosso del ritrovamento è esposto nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme (nella sezione numismatica posta nel caveau del piano interrato, dove la stratificazione della stipe è esposta in maniera davvero egregia e di grande interesse didattico); restanti pochi reperti minori risultano distribuiti tra: i Musei Vaticani; a Londra sia al Victoria and Albert Museum sia al British; mentre si trova al Cleveland Museum of Art, nell’Ohio, una notevole coppa in argento con una scena raffigurante un satiro e una menade danzanti intorno a Priapo. Eccellenti copie dei vasi si trovano inoltre al Museo Arquelógico Nacional di Madrid.

Ma veniamo ai Bicchieri di Vicarello, che sono i reperti più interessanti tra quelli rinvenuti nella stipe votiva del 1852. Si tratta di quattro bicchieri in argento che sono repertati e descritti nel CIL XI, 3281-3284, il Corpus Inscriptionum Latinarum concepito fin dal 1846 dalla fervida genialità dell’inesauribile storico tedesco Theodor Mommsen, sotto la cui infaticabile guida esso venne attuato nei decenni successivi: incidentalmente, è da ricordare che nel 1902 – oltre che per l’ideazione e la realizzazione del CIL e di numerose altre opere – al Mommsen venne conferito il Premio Nobel per la Letteratura quale riconoscimento dell’eccezionale contributo da lui dato alla conoscenza della Storia di Roma (la Römische Geschichte), che era il titolo di un suo importante trattato (ancora oggi per alcuni versi attuale e consultato dagli studiosi), che veniva menzionato proprio nel decreto di concessione del Nobel.

I quattro bicchieri sono di dimensioni differenti l’uno dall’altro (si va da un’altezza di 95 mm per il più basso, fino a 115 mm per quello più alto), realizzati tra fine I sec. d.C. e inizi II, che nella forma ricordano i cippi miliari che erano collocati lungo le vie consolari e – per l’appunto – sulla parete esterna di questi bicchieri era riportato l’Itinerarium Gaditanum, ovvero il percorso stradale che i reparti militari, i pellegrini pagani e i comuni viaggiatori dovevano percorrere con partenza dall’ispanica Gades (l’odierna città di Cadice) per raggiungere Roma: era un itinerario terrestre di 1841 miglia romane [come risulta inciso sui bicchieri: SVM(MA) M(ILIA) P(ASSVVM) MDCCCXXXXI], corrispondenti a circa 2723 km odierni ed erano segnate le 104 stationes principali, con l’indicazione delle distanze intermedie tra le varie tappe: è l’ITINERARIVM A GADES ROMAM.

Il rinvenimento di questi bicchieri  ha fatto sorgere numerosi interrogativi, ai quali non sempre è stato possibile dare risposte uniche e concordanti, in quanto gli elementi da prendere in esame per una corretta valutazione di questi reperti sono scarsi e spesso tra loro in contraddizione. In ogni caso, un’eccellente descrizione dei Bicchieri di Vicarello (dal punto di vista squisitamente storico-archeologico-epigrafico) la troviamo nell’insuperato testo di Epigrafia Latina di Ida Calabi Limentani, alle pp. 306-308 dell’edizione Cisalpino Goliardica del 1985.

I bicchieri non vennero forgiati per essere degli ex-voto: si ritiene che fossero degli utensili da viaggio sia pure costosi (perché in argento e quindi presumibilmente appartenenti a ricchi viaggiatori), utilizzati semplicemente per dissetarsi (e infatti vennero giustamente definiti vasi potorj dal pd. Marchi) durante il lungo trasferimento, ma che costituivano anche un utile memo per la prosecuzione del viaggio; a tale proposito suonano illuminanti le parole di pd. Marchi, il quale sui Bicchieri di Vicarello scrisse: “…ognuno fa le meraviglie nel vedere il raffinamento della civiltà di cui è testimonio un itinerario maneggevole, scolpito nella tazza, che il viaggiatore porta seco nelle sue pellegrinazioni. Molto tardi noi siamo giunti ad avere gl’itinerarj nelle carte e ne’ libri…”, per poi aggiungere che “non servono solo ad indicare la via, ma anche a contenere il liquore che vogliasi bere”; si ipotizza che solo in un secondo momento i bicchieri furono lasciati dal ricco pellegrino, che ne era il proprietario, quali ex-voto alle Aquae Apollinares, forse come devoto ringraziamento al dio Apollo per aver guarito l’offerente da una malattia sofferta in patria (e per la quale il viandante si era messo in pellegrinaggio), oppure (ma è molto meno probabile) per un serio malessere incorso durante il viaggio.

Ha lasciato altresì sorpresi che sui bicchieri fosse illustrato l’Itinerarium Gaditanum che, tuttavia, non transitava per le Aquae Apollinares, bensì procedeva ad est di esse, senza neanche lambirle: infatti nell’Itinerarium Gaditanum, una volta entrati in Italia, si toccavano, tra le altre città di sosta, Augusta Taurinorum (Torino), Bononia (Bologna), Ariminum (Rimini), Fanum Fortunae (Fano), per infine scendere lungo la Via Flaminia, passando per Narnia (Narni) e Ocriculum (Otricoli), percorrendo quindi una direttrice posta qualche chilometro ad est delle Aquae.

Si è allora ipotizzato che i quattro bicchieri fossero dono di mercanti ispanici che si fossero instradati per l’Itinerarium, ma è parso innaturale che da Gades, posta poco ad ovest delle Colonne d’Ercole, quei mercanti avessero affrontato uno scomodo, periglioso e lungo viaggio via terra, anziché spostarsi da Gades a Roma via mare, ovviamente durante la stagione propizia ai viaggi marittimi. Infine un’ipotesi che, personalmente, tenderei a privilegiare [ma senza che esista alcun elemento capace di dirimere i dubbi in proposito!], è che i bicchieri siano stati donati dagli ignoti viaggiatori ispanici al già menzionato console dell’anno 61, il nobile Lucio Iunio Cesennio Peto (o, più probabilmente, al suo omonimo figlio primogenito) e che questi ne abbia successivamente fatto dono – per motivi che rimangono anch’essi ignoti, al pari del nome dei viaggiatori ispanici – alla collerica e temuta divinità che tutelava le Aquae Apollinares.

Gianni Fazzini

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