28 Marzo, 2024
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Amore e morte sul palco di un anfiteatro naturale

Quelle splendide giornate d’inizio estate, trascorse nel grazioso e familiare borgo di Trevignano Romano, iniziavano sempre con il solito dubbio: la pizza rossa che mia zia Leonina ci portava tutte le mattine nella casa di mio nonno Lorenzo, l’aveva acquistata nella bottega di Geo, in quella di Aldo, oppure presso il vapoforno, leggermente più distante, di Piola?
Quella mattina non potemmo porci il quesito perché quando mia zia arrivò a casa, mio fratello ed io, eravamo usciti qualche ora prima in compagnia di mio padre che aveva organizzato una giornata completamente dedicata alla pesca ed è molto probabile che nel momento in cui mia zia, quella mattina, suonò il campanello di casa, noi stavamo già salendo su una barca, tutta di legno, chiamata Lucia in memoria di mia nonna deceduta qualche anno prima.
Mio padre la teneva adagiata su un terreno nascosto tra le canne, al termine di uno stretto passaggio che, dalla strada asfaltata, permetteva di raggiungere la riva del lago. Un luogo, per me magico, che si trovava qualche metro dopo il cinema Palma, proprio di fronte all’altro cinema del paese, quello della Casa del fanciullo, dove si proiettavano film prevalentemente a carattere religioso. Potremmo dire che l’imbarcazione era collocata tra il diavolo e l’acqua santa.
La giornata era splendida, la superficie del lago era talmente piatta che il promontorio di Montecchio, dall’altra parte del piccolo golfo, si specchiava in tutto il suo naturale splendore.
Molto prima di raggiungere le Pantane, mio padre decise di uscire dall’amabile golfetto per provare a pescare qualche luccio in acque più aperte, e quindi più profonde e fresche, con la sua tirlindana. Non era la prima volta e quella scelta mi riempiva sempre di gioia perché mi permetteva di remare, mentre lui, in fondo alla barca, dopo aver lanciato un lungo filo di nylon che terminava con un cucchiaio di rame circondato da grossi ami, rimaneva in attesa che almeno uno di quei poveri pesci, che avevano la sola sfortuna di essere portatori di carni prelibate, cadesse in inganno.
L’assenza di vento non era una buona condizione per quel tipo di pesca, così, dopo tre o quattro giri andati a vuoto, ci dirigemmo verso il grande canneto delle Pantane in attesa di miglior fortuna.
Mentre ci avvicinavamo adesso l’ambiente circostante si trasformava velocemente. Il marineto, sotto la superficie del lago, cedeva il posto alle alghe più alte che arrivavano fino alla linea dell’acqua e il tutto veniva abbellito da verdi ninfee sempre più numerose e adorne di grandi fiori colorati.
Soltanto la sempre più fitta presenza delle canne, e ancor prima i turgidi sigaroni, originati da quelli che noi chiamavamo giunchi, interrompevano quel bellissimo tappeto somigliante a un verde prato fiorito. Ed ecco che cominciava un altro scorcio che, a metà tra terra e acqua, forniva un sicuro riparo per uccelli e anfibi, che, attraverso i loro suoni, annunciavano la loro presenza.
Mio padre aveva a disposizione un proprio corridoio (in realtà non so se per un convenuto accordo tra pescatori) che gli permetteva di entrare all’interno del canneto. Subito dopo, una volta a destra e una volta a sinistra, tirava fuori da non più di un metro d’acqua, una specie di lungo cilindro fatto di rete, con tre o quattro cerchi di metallo, dal cui interno uscivano altri più corti, che finivano ad imbuto, sempre più piccoli, sempre più stretti, fino al termine, dove un nodo chiudeva l’unica via di salvezza. I pesci, entrati dal cilindro più grande, rimanevano chiusi in fondo al sacco, senza la possibilità di tornare indietro, vivi, ma proprio per questo motivo, pronti per essere catturati. Più forte era il rumore dell’acqua, provocato dal disperato movimento dei pesci, man mano che si alzava il tovarello (mio padre lo chiamava così), più abbondante era stata la pesca.
Tra le varie soste, solamente una volta, giunti quasi al termine del lungo corridoio, non sentimmo alcun rumore, nonostante l’antico attrezzo dei pescatori fosse comunque pesante: fu quando un uccello, una folaga, cercando di catturare il pesce impigliato nella trappola mortale, s’infilò nel tovarello e rimase incastrata in fondo al sacco, unico animale, tra i pochi presenti, che non era attrezzato per respirare sott’acqua.
Rimasi scioccato da quella morte assurda mentre mio padre, dopo aver sciolto il nodo finale del tovarello, lanciò il corpo della folaga tra le canne e, forse preso da un senso di colpa, lasciò liberi i pochi pesci rimasti. Sarà stato un episodio che aveva già vissuto, o forse no, sinceramente non ebbi il coraggio di chiederglielo anche perché mancava ancora da tirare sulla barca un altro paio di tovarelli e non volevo che mio padre, subito dopo la mia domanda, tornasse indietro, lasciando quei poveri pesci ancora sott’acqua, ancora obiettivo di una prossima folaga.
Fu una precauzione inutile perché, non molto distante dal nostro corridoio, proprio in quella parte del canneto, dove mio padre aveva lanciato la folaga, sentii nitidamente un suono diverso da quello prodotto dai numerosi volatili presenti: era il lamento di una giovane donna che, ogni volta che alzava il tono della voce, si rivolgeva a dio, chiamandolo più volte.
Mio padre, dopo essersi guardato attorno visibilmente preoccupato, si allontanò subito dal canneto, lasciando sott’acqua gli ultimi tovarelli e dentro di me una profonda delusione. Tirando assieme la barca a riva, dopo aver nascosto i remi tra l’erba alta, continuai a chiedermi perché mio padre fosse andato via in quel modo, fuggendo dalle proprie responsabilità, che ritenevo certamente involontarie. Anche in questo caso scelsi di non dire nulla.
Mentre tornavamo a casa, tra i vicoli del borgo, avrei voluto chiedere spiegazioni ma, al primo apparire della finestra della casa paterna, mi ricordai di quando, ancora molto piccolo, mia nonna Lucia, mentre puliva il pesce, lanciava, a me e mio fratello, nel vicolo sottostante, la vescica natatoria dei pesci appena pescati che noi facevamo scoppiare sotto i nostri piedi. Fu l’unica cosa che riuscii a dire durante il pranzo e il mio ricordo commosse tutti i presenti.
Nel pomeriggio, dopo essere andato a comprare per mio nonno, i sigari e i fulminanti presso la tabaccheria all’interno del bar di Ermete, mi recai all’osteria di Fortunato, dove mio padre iniziò a raccontare, rivolgendo a mio nonno uno strano, e per me incomprensibile sorriso ironico, l’episodio del lancio della folaga e le sue conseguenze. Fu in quel preciso istante che cominciai a capire… e quando mio nonno Lorenzo mi offrì, con la complicità di mio padre, mezzo bicchiere della sua birra, pur allungandola con una gazzosa, mi sentii subito grande.
Lorenzo Avincola

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