19 Aprile, 2024
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Sport, tra performatività e liberazione

Come ribaltiamo il fitness da attività performante e produttivistica a pratica di liberazione psico-corporea?

Come costruiamo sport che siano spazi per la cura del sé creativi e non performativi?

Una riflessione a partire dall’ultimo numero di DWF “Scatenate. Quelle che lo sport” (presentazione oggi alle 18.30 sul nostro sito e pagina Facebook)

Quante volte durante il lockdown avete aperto un tutorial di fitness? E quante volte in fase due avete letto possibili diete da fare per perdere i chili di troppo accumulati durante la fase uno? E, al di là della pandemia, da quanto tempo avete attivato sul telefono il conta passi? E il conta calorie?

Sono meccanismi in cui tutte siamo rimaste incastrate, del resto basta scrollare una qualsiasi feed di instagram per essere rimbalzate da un tutorial di yoga a una ricetta per uno smoothie disintossicante, da una beauty routine a una pubblicità di leggins. Ma non c’è nulla di male nel “prendersi cura di sé”? Prendersi cura di sé è diventato un messaggio rimbombante durante questi mesi di restrizioni: alzati presto la mattina, vestiti come se stessi andando a lavoro, truccati, sistemati, fai pasti a ore regolari, non bere, fai esercizio fisico, anche poco, tutti i giorni. Non lasciarti andare, anche se stai male, sentiti bella, regalati qualcosa e così via. Tutti messaggi più che corretti. Cosa succede se però non ce la fai? Ti senti in colpa, una fallita, una che non riuscirà mai.

Lo spiega bene Leigh Stein nel suo ultimo romanzo, la self-care industry non è diversa dalla diet-culture, entrambe sottopongono le donne ad autoimposizioni impossibili che le fanno sentire costantemente inadeguate.

E quindi sempre pronte a comprare un prodotto o servizio per rimediare alle loro incapacità. Dalla app di esercizi alla crema antirughe, dal prodotto vegano e senza grassi al libro i “10 modi in cui guadagnare autostima”. In questo senso, queste routine con le quali prendersi cura di sé sono parte integrante della società della prestazione, come la chiamano Anna Simone e Federico Chicchi. Tutto diventa parte di un grande processo di automotivazione e di management di se stesse: il fitness, la dieta, le routine di cura di sé. Parte della stessa razionalità neoliberale per cui dobbiamo essere imprenditrici di noi stesse, belle, attive, capaci, sorridenti.

Il fitness è diventato il veicolo di questa cura di sé, sempre individuale, autocentrata, auto-costruita, e spesso auto-raccontata in storie di instagram e tutorial di youtube.

In questo processo, Alcune discipline olistiche millenarie, come lo yoga, sono state completamente svuotate dei propri contenuti meditativi e filosofici orientali per diventare delle pratiche sportive di allenamento occidentale. E così, tante arti marziali nel loro passaggio verso occidente sono diventate sport da combattimento individuali, perdendo le pratiche di osservazione della natura e di spirito di difesa comunitario.

Il nostro corpo per essere produttivo deve essere allenato e performante, e per vendere noi stesse dobbiamo essere curate e presentabili.

Quindi per sfuggire da questa società della prestazione e della performance non dovremmo prenderci cura di noi stesse o non dovremmo fare attività fisica? Intorno al concetto di cura è chiaramente in atto una lotta per ridisegnare i suoi confini semantici. Infatti, i movimenti femministi di tutto il mondo hanno messo al centro delle proprie riflessioni la questione della cura, dal lavoro di cura non pagato ai settori della cura sottopagati, dalla centralità della cura e all’avere cura nella nostra società.

Molto meno interesse, se non nessuno, è stato prestato però al ribaltamento della questione del fitness. Nonostante sia proprio attraverso lo sport che facciamo esperienza del nostro corpo. Concetto, quest’ultimo, centrale per i femminismi.

Da qui parte l’ultimo numero di DWF “Scatenate, Quelle che lo sport…”, che partendo dalla visibilità degli ultimi mondiali di calcio femminile, con tutte le contraddizioni del caso, si domanda che cosa sia oggi la pratica sportiva per dei corpi, per secoli esclusi, che si ritrovano a giocare fuori dalla norma maschile.

Un numero che attraverso una pluralità di voci, vissuti ed esperienze, racconta di come le donne si siano riappropriate dello sport, facendone uno spazio di possibilità e libertà. Ma scorge anche come oggi lo sport femminile sia uno spazio per normare i corpi, uno spazio colonizzato, almeno in parte, da una razionalità neoliberale e performante. E così questo numero di DWF, tra racconti di bimbe che guardano i mondiali e pole dancer che sfidano la forza di gravità, tra squadre di calcetto femminile e pratiche marzialiste di autocoscienza femminista, fa una cosa importante, ripone al centro il corpo a partire dalla sua pratica quotidiana.

Ricordandoci che il nostro corpo non è mai una teoria ma è una relazione con noi stesse, con le altre, e con l’ambiente che abbiamo intorno. E da qui forse dobbiamo ripartire per riprenderci lo sport: dalla relazione con se stesse, le altre e l’ambiente. E non solo dalla sfida con sé stesse.

Allora dismettiamo i sensi di colpa. Ritroviamo il senso del divertimento e… pronte ad allenarci insieme?

(Dinamopress)

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