19 Aprile, 2024
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Tra le gang di New York. E Fifth Avenue diventa un campo di battaglia

NEW YORK – Si attende il tramonto, si aspetta che i manifestanti pacifici decidano di andarsene.

È allora che partono gruppi di tre, massimo cinque, ragazzini che si avvicinano alle vetrine e le spaccano con mazze da baseball di metallo, o con piedi di porco.

Ma quando la vetrina è in pezzi non entrano solo loro, ma tutti quelli che si trovano nei paraggi. Si entra e si corre, prendendo quello che c’è da prendere.

I saccheggi nei supermarket sono i più violenti, tutto ciò che non viene preso viene fatto cadere, le vetrine dei surgelati distrutte, mentre si riempiono i carrelli. I televisori sono spesso i prodotti più ambiti, il cibo quasi sempre ignorato tranne i dolci. Ogni volta che un gruppo si organizza per sfondare una vetrina, si crea un flusso di manifestanti pacifici, spesso un vero e proprio cordone, che cerca di fermarli ma raramente riescono a dissuaderli.

L’età dei saccheggiatori spesso è bassissima, sono giovanissimi, ma ti colpisce vedere signore normali che entrano in questi negozi devastati cercando le loro taglie di vestiti quasi volessero provarli.

C’è chi esce con due lampade sotto le ascelle, altri che indossano dieci cappelli, uno sopra l’altro. Ci sono quelli che si portano via decine di scatole di scarpe e quando escono, a loro volta, vengono saccheggiati. Queste sono le immagini di New York di queste notti.

La maggior parte di quelli che si sono indignati per le violenze sistematiche della polizia americana non può che vedere nei saccheggi, in questi saccheggi, un regalo a Trump e una delegittimazione delle ragioni politiche e sociali della protesta.

Perché è proprio questo che succede: il saccheggio è un gesto che uccide qualsiasi possibilità di fare di una manifestazione legittima uno strumento politico di trasformazione e di cambiamento. Il saccheggio, che spesso coinvolge gente di ogni tipo, lascia solo distruzione e devastazione. Ma il cuore della questione, purtroppo, è proprio questo: quando si perde la speranza, le uniche cose che sembrano contare diventano rabbia e vendetta.

Alla domanda che moltissimi manifestanti pacifici pongono, “Why?” (perché, perché lo state facendo?),

quasi tutti i saccheggiatori violenti non rispondono o borbottano qualche insulto, ma c’è qualcuno che invece replica: “no looting, no news”, cioè senza saccheggi non c’è attenzione mediatica, senza saccheggi le manifestazioni con le candele e i fiori e le mani nelle mani sbiadiscono in fretta.

Una menzogna, perché, in realtà, sappiamo che la lotta per i diritti civili ha ottenuto qualcosa mantenendosi pacifica, ma il meccanismo della paura e della violenza attrae anche per questa folle suggestione. Nelle strade incontri tantissime persone che sfilano con gli striscioni per Floyd, e per un’America più giusta, e altri che rompono le vetrine.

Una lacerazione e una spaccatura che rendono questa città e questo paese il luogo della contraddizione in cui convivono tante cose diverse: pensare di trovare una condotta di coerenza negli avvenimenti di questi giorni è molto, molto difficile. I saccheggi fatti nei giorni scorsi in molti parti della città, e in particolare dalla Quinta strada a Soho, il quartiere delle grandi firme della moda, hanno mostrato una caratteristica unica: non si distrugge la vetrina dei grandi marchi del lusso, da Rolex a Nike, perché si disprezza il mondo che esprimono, o come presunto gesto di solidarietà ai lavoratori.

Molto più semplicemente si distrugge la vetrina per prendere quell’orologio, quella camicia, quella borsa che finalmente fanno accedere al “diritto ad essere cool”.

Questi saccheggi non sono quindi la rivendicazione di un diritto collettivo ma banalmente e brutalmente di un’aspirazione individuale. Alla maggior parte di coloro che entrano a rubare non frega nulla dell’innocente nero ammazzato sotto il ginocchio di un poliziotto, non importa nulla della situazione dei ghetti, vuole solo fregarsi il televisore: ed è proprio così.

Una delle conseguenze che produce un saccheggio è che spesso gli arresti vengono fatti tra i manifestanti pacifici, soprattutto tra coloro che cercano di fermare chi spacca le vetrine. Sono lì fermi e diventano un bersaglio facile. Mentre gli altri scappano. Ho visto, in queste notti, molte persone che si muovevano da una manifestazione all’altra, passando da un saccheggio a un altro, rivendicando quasi una sorta di spesa proletaria (come veniva chiamata negli anni ’70).

Le mazze e i piedi di porco li portano in alcuni zaini e in molti casi non riesci a comprendere nemmeno dove saltino fuori visto che ad occhio nudo ogni manifestante non sembra avere altro che le proprie mani alzate e qualche cartellone. Il clima è a metà tra il terrore per un’operazione di guerriglia e una grande festa. Ma non è una festa. La polizia contribuisce a creare situazioni adatte a chi vuole i saccheggi, perché caricando i manifestanti pacifici, proprio lì arriva il momento propizio per i piccoli gruppi che vedendo il caos si staccano e provano l’assalto.

In questi giorni gli elicotteri perenni sulle teste e le sirene hanno reso New York un territorio in stato di assedio:

anche quando le manifestazioni procedono per molti chilometri con madri e padri che portano i figli sulle spalle, non si ha voglia di sorridere. In fondo tutti si sentono minacciati nel proprio diritto alla vita e le marce assumono un tono drammatico e disciplinato.
Quando è scoppiata la pandemia qui a New York tutti i negozi di lusso hanno sigillato le loro vetrine coprendole di pesanti tavole di legno o addirittura hanno fatto doppie vetrine. Si stavano difendendo dal virus? No, sapevano perfettamente che i saccheggi erano una possibilità. Anche in quel momento. Ben prima delle proteste di oggi.

Che in molta parte degli Stati Uniti sono state pacifiche, nonostante episodi gravissimi come quello successo ad Austin dove un ragazzo di 16 anni, Brad Levi Ayala, è stato raggiunto da un proiettile di gomma alla fronte, sparato dalla polizia mentre stava manifestando. Esiste anche una forma di resistenza alle brutalità della notte. Tante persone si metteno davanti alle vetrine per non farle sfondare e ci sono gesti di reciproco rispetto e riconoscimento che fanno dimenticare la ferocia.

Ci sono manifestazioni con un clima diverso: sono quelle in cui gli agenti si inginocchiano o fanno dei discorsi di rispetto verso le vittime innocenti della violenza della polizia, come accaduto a Coral Glabes (Florida) o a Ferguson (Missouri), dove gli agenti si sono uniti alla preghiera in ricordo di George Floyd seguendo l’esempio di Chris Swanson, lo sceriffo di Flint (città del Michigan simbolo del degrado per la crisi industriale) che per primo si è tolto l’elmetto e si è messo a sfilare al fianco dei manifestanti mettendosi con i suoi colleghi a loro disposizione. Con il suo “cosa possiamo fare per cambiare le cose?” ha aperto un dialogo con chi protesta.

Prima di venire a vivere negli Stati Uniti, per me era difficile capire cosa significasse avere paura della polizia.

È lunghissimo l’elenco di persone afroamericane uccise solo negli ultimi anni dalla polizia: nel 2014 il diciottenne Michael Brown venne ucciso a Ferguson (Missouri) con 6 colpi di pistola perché sospettato di furto; nello stesso anno Tamir Rice, 12 anni, venne ammazzato mentre giocava con una pistola ad aria compressa in un parco di Cleveland (Ohio); Eric Garner, 43 anni e padre di sei figli, venne fermato a Staten Island perché sospettato di contrabbandando di sigarette, sbattuto a terra e schiacciato a morte; nel 2015 a Baltimora (Maryland), Freddie Gray, di 25 anni, muore per lesioni alla spina dorsale una settimana dopo un arresto brutale; nel 2016 l’omicidio di Philando Castile, 25 anni, venne postato su Facebook dalla fidanzata, che era seduta in macchina accanto a lui quando un poliziotto gli sparò a un controllo stradale davanti agli occhi di sua figlia; a marzo Breonna Taylor, ventiseienne di Louisville, è stata uccisa da tre poliziotti che hanno fatto irruzione di notte a casa sua perché sospettavano, sbagliando, che quello fosse il covo del suo ex fidanzato.

Sono solo alcuni dei nomi che compaiono sulla lista che porta fino all’omicidio di George Floyd. Le differenze sociali ed economiche tra neri e bianchi spesso sono ancora ai livelli degli anni ’70, il tasso di scolarizzazione dei neri è più basso rispetto a quella dei bianchi. Persino nel caso del Covid qui i neri si ammalano molto più dei bianchi.

Per capire la situazione dei neri: il 1° maggio è entrato al Congresso un gruppo di suprematisti bianchi, i Boogaloo Bois, imbracciando degli AK47. Nessuna azione di contrasto è stata intrapresa dalla polizia, non sono stati sparati lacrimogeni né proiettili di gomma.

Qui i media usano la formula “Shoot Warfare”, “sparatoria con agente…” oppure “sono stati sparati dei colpi e l’uomo è morto” non si dice mai “l’agente ha ucciso”, “l’uomo è stato ucciso”.

C’è anche un’altra riflessione da fare, difficile da capire per chi guarda dall’Italia: per una parte dei manifestanti quello che sta accadendo è già non-violento, perché la violenza è intesa contro le persone mentre in questo caso è rivolta verso cose, in alcuni casi cose ritenute responsabili della sproporzione tra bianchi e minoranze. Sono teorie che servono a giustificare, ad assolvere. Secondo le voci più radicali ed estremiste il saccheggio in Usa è bianco: il bianco ha saccheggiato terre, ha saccheggiato lavori, e ha continuato a saccheggiare vendendo titoli tossici ai neri nel 2008, negando mutui e provocando altra povertà. Nel momento in cui questo accade in un mondo in cui moltissimi stanno vivendo in ghetti persino più schifosi di quelli degli anni ’70, minacciare la proprietà significa minacciare la proprietà di chi sta confermando questo mondo. Ma questa è filosofia.

Quando si parla di diritti civili non bisogna dimenticare le conquiste dei pacifisti, mai. Anche quando si fa riferimento al fatto che Martin Luther King è stato ucciso da un bianco armato, come a dire che la non violenza intesa come impossibilità del conflitto è ormai perduta.

Ora c’è il rischio che possa esserci un inasprimento del conflitto armato. E secondo tanti la polizia è addestrata male perché non è più quella di Joe Petrosino, il poliziotto italo-americano che riuscì a mettere in difficoltà la protomafia della Mano Nera. Oggi in troppi considerano la divisa come un lavoro che ti costringe ad arrotondare facendo altro (dall’autista al buttafuori) e si fa per poco tempo fino a quando non si trova qualcosa di meglio. Nonostante ci siano nella polizia americana moltissimi afro-americani, cino-americani, agenti di origine latina, l’addestramento insegna comunque a identificare nell’altro subito la possibilità di rischio. In un Paese dove è così facile raggiungere una pistola, il terrore dei poliziotti è continuo.

L’ultimo elemento che fa capire la disperazione di queste rivolte è l’ombra del fallimento della presidenza Obama che non ha cambiato la situazione per i neri, nella gestione della violenza, nel rapporto con la polizia, nei veri diritti delle minoranze.

Una speranza che è diventata illusione. Perché non si può riformare un Paese senza un vero addestramento delle forze dell’ordine, senza la garanzia dei diritti per tutti. Oggi ogni afroamericano che non sia ricchissimo sa che anche quando è innocente gli conviene dichiararsi colpevole perche difficilmente sarà assolto da una giuria popolare. Così nessuna America nuova può nascere dalla mano di Trump sulla Bibbia

(La Repubblica)

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