20 Aprile, 2024
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Ladispoli. Angelo Corbo: uno sbirro alla “Melone”

Per uno degli eroi dei nostri tempi, Angelo Corbo, medaglia d’oro al valor civile, sopravvissuto alla strage di Capaci, non è un’offesa essere chiamato con questo termine, perché in questo modo vengono definiti dai mafiosi i loro nemici e lui è fiero di essere nemico della “merda della Terra”. Proprio in questo modo il nostro ospite ha definito gli assassini di uomini, donne e bambini che, senza essere eletti da nessuno, si sono sostituiti al potere dello Stato, tradendo tutti noi, popolo italiano, che soli abbiamo il diritto di stabilire le regole della nostra convivenza.

Questo nuovo incontro fra i ragazzi della “Melone” e la legalità, che fa seguito a quello dello scorso anno avuto con l’Avvocato Alfredo Galasso, Presidente dell’Associazione Antimafia “A. Caponnetto”, e il compianto magistrato Ferdinando Imposimato, è stato organizzato venerdì 9 marzo, grazie all’aiuto di Francesca Toto (coordinatrice della Associazione “Agende rosse”) e Massimo Pilia (referente della Associazione “Mamme Etrusche”), presso la sala teatro della Scuola, per l’indisponibilità della sala consiliare, concessa invece lo scorso anno dalla precedente amministrazione comunale. Tuttavia, per consentire a tutte le classi che non hanno potuto assistere direttamente, a causa degli spazi ristretti, di seguire i lavori, è stata effettuata una diretta streaming sulla pagine Facebook della Scuola, dove, chi lo desideri, può rivedere l’intero incontro.

Dopo una introduzione di Francesca Toto, la quale ha commentato l’intervista a Fiammetta Borsellino “25 anni di buchi neri, un Paese senza libertà” e la notizia del rinvio a giudizio di alcuni poliziotti per depistaggio sulle indagini relative alla strage di via D’amelio e l’intervento di Massimo Pilia il quale, fra l’altro, ha detto: “Solo rispettando la legalità ci si può addormentare tranquillamente la sera e guardare negli occhi i propri figli”, è entrato, fra gli applausi generali, Angelo Corbo, agente di scorta del giudice Giovanni Falcone, poliziotto da poco tempo in pensione, sopravvissuto, forse proprio grazie ad un errore del giudice, alla strage di Capaci. Infatti, un errore di guida del giudice Falcone, costrinse ad un rallentamento dell’auto della scorta che lo seguiva. Per questo rallentamento, l’auto su cui viaggiava Falcone, invece di essere sbalzata, come la prima auto di scorta, esplodendo con la autostrada, urtò violentemente contro il muro di asfalto sollevatosi per l’esplosione mentre la vettura su cui si trovava Corbo, seduto sul sedile posteriore per il controllo del retro della strada, si fermò con pochi danni. Con le moderne cinture di sicurezza ed airbag, forse Falcone e gli altri passeggeri della sua auto si sarebbero fortunosamente salvati.

Angelo Corbo divenne agente di polizia nel 1987 e fra l’altro fu assegnato a sorvegliare l’abitazione di Sergio Mattarella, attuale presidente della Repubblica. Successivamente passò alla scorta di Giovanni Falcone. Dopo la Strage di Capaci, ottenne il trasferimento alla Polizia Scientifica. Ora prosegue la battaglia contro la mafia parlando ai ragazzi delle scuole, fra cui la “Melone”.

<<La mafiosità è anche dentro di noi e riappare quando anteponiamo i nostri interessi personali a quelli della comunità che ci accoglie e difende>> è la frase con cui Angelo Corbo ha iniziato a confrontarsi con i nostri ragazzi. La mafia non è una organizzazione, ma un comportamento: ciascuno di noi è mafioso se non rispetta il prossimo, se per il proprio interesse rigetta quello degli altri. Mafioso è essere bullo, è sopraffare un altro. Mafioso è non parlare, non difendere, è essere omertosi. Come i mafiosi, il bullo è forte solo perché è appoggiato da chi non agisce e non si ribella; trae la propria forza dal silenzio dei deboli, che non sono le vittime, ma chi, con omertà, non reagisce.

Egli stesso da adolescente è stato vittima di bullismo. Per un anno, andare a scuola era diventato un tormento continuo. Gli piaceva studiare, ma ogni giorno passato a scuola era una violenza. Cominciò allora a non andare, rientrava in classe solo in tempo per non essere costretto a portare il certificato medico che non avrebbe potuto produrre. Ovviamente sentiva che veniva leso un suo diritto, quello di poter continuare a studiare come avrebbe voluto, ma, credendosi indifeso, non raccontò nulla a nessuno, né ai genitori né ai professori. Non per omertà, ma per paura di essere ritenuto debole. Questo, però, rendeva i suoi aguzzini ancora più forti, fino al giorno in cui, sbagliando, invece di denunciare la situazione, cercò giustizia da solo e reagì con un pugno. Da soli si è realmente deboli, mentre si è invincibili se aiutati dalla società. La sua giustizia privata lo portò, così, in ospedale e rischiò seriamente di perdere anche un occhio. Allora i genitori lo spostarono in una scuola migliore dove poté studiare e affrontare l’importanza della difesa dei diritti. Perse un anno scolastico, ma la cosa peggiore era stata il rendersi conto che, per un anno, gli era stato tolto un diritto: quello di studiare. Fare i bulli o esserne servi con il silenzio è esattamente allenarsi alla mafiosità.

Far parte della malavita può far credere di essere importanti, si guadagna bene e si hanno molti soldi. Si inizia con la richiesta a ragazzi, della stessa età dei nostri “meloncini”, di passeggiare per il quartiere e segnalare se vi entra qualche estraneo. Racconta Angelo che questo servizietto veniva remunerato con qualche banconota, oggi equivalente ad una ventina di euro. Se poi si portava sul motorino qualche cosa da consegnare (droga o armi) i soldi aumentavano e questi ragazzotti si sentivano “grandi”, avendo soldi da spendere e ritenendosi parte di qualcosa da adulti. A quell’età Angelo vedeva a sapeva, ma non capiva perché i suoi genitori lo costringevano a restare a casa, invece di lasciarlo sulla strada e guadagnare come i suoi compagni. Lo ha capito molto dopo, quando ha cominciato a vedere quei suoi compagni ad uno ad uno morti per strada o in galera. Allora ha capito che i suoi genitori lo avevano protetto e salvato.

La mafia ha paura della Scuola perché per sopravvivere ha bisogno che la maggior parte delle persone resti ignorante e quindi non sappia ragionare con la propria testa. Nella nuova scuola imparò, invece, cosa significhi avere dei diritti e l’importanza di difenderli e fu in quel momento che gli venne la volontà di fare il poliziotto, di diventare uno “sbirro”, come si dice insolentemente. In quella scuola aveva, infatti, conosciuto un ragazzo tranquillo e sereno di 11 anni il quale fu ucciso da due mafiosi che gli scaricarono un intero caricatore di pistola: probabilmente per eliminare un testimone pericoloso. La verità è pericolosissima per la mafia. Angelo non ne poté più: voleva ridare dignità alla sua amata città, Palermo, e divenne poliziotto.

Fu chiamato a far parte delle scorta di sicurezza ed entrò a far parte della scorta di Falcone quando nessuno voleva essergli vicino ed era odiato da tutti. Anche fra i suoi colleghi. Anche da coloro i quali successivamente al suo assassinio, lo celebrarono.

La figura di Falcone era osteggiata praticamente da tutti: dai politici, ai giornalisti, ai cittadini. Come esempio, Angelo ha raccontato di quella signora, abitante nello stesso palazzo del giudice, che scrisse una lettera in cui si lamentava delle sirene della scorta e del pericolo che gli abitanti correvano ad avere nel palazzo il magistrato. Ma Falcone non stava lavorando per guadagnare soldi o per la sua brama di potere, se avesse voluto uno o l’altro non avrebbe fatto il giudice antimafia. Falcone lavorava e rischiava la vita proprio per il bene di quella signora e di tutti i cittadini, per liberarli dalla schiavitù di chi impone regole proprie ed uccide per farle rispettare. Giovanni Falcone, come chi è seriamente sotto scorta perché in pericolo di vita, in realtà rinunciava alla propria libertà, rinunciava alla propria vita per difendere quella degli altri. Viveva peggio dei carcerati di Regina Coeli o dell’Ucciardone. Rinunciava ai divertimenti, cinema o teatro, per non mettere a rischio gli altri spettatori. Faceva attività fisica in piscina di notte, quando la piscina era vuota. Ma il peggio non erano queste rinunce, quanto piuttosto, l’onta di vedere le persone alzarsi ed andarsene via dai tavoli, lasciando i piatti ancora pieni, per non restare nello stesso locale dove entrava lui.

Quando Falcone si rese conto che non poteva più lavorare e fu chiamato a Roma dal Ministro della Giustizia Martelli, ricominciò a vivere. A Roma poteva muoversi liberamente, finalmente da uomo libero. Anche allora gli fu gettato fango addosso. Fu accusato di voler fare carriera politica, come se solo i politici di professione (meglio se collusi) possano fare politica, ma in realtà a Roma lavorò moltissimo. A lui si deve la creazione della DIA e della DDA.

Fu ucciso certamente dalla mafia, ma non solo: troppe cose non tornano in quanto gente di bassa intelligenza come Riina, Brusca e gli altri condannati, non avevano assolutamente la capacità di organizzare l’attentato con la precisione vista, una “professionalità” emersa anche nelle cattura di Moro e nell’uccisione della sua scorta che le Brigate Rosse non avevano. Come non torna la strana coincidenza di mandare Luciano Traina, fratello di Claudio, uno dei poliziotti morti nella strage di via D’Amelio, armato e per primo, nel locale dove poi ha arrestato Brusca. Solo la forza morale di Traina gli ha impedito di sparare all’assassino del fratello eliminando… una persona che rischiava di poter chiarire fatti pericolosi.

L’incontro è stato interrotto per pochi minuti da una telefonata di Luciano Traina. Luciano ha raccontato del suo arrivo sul luogo della strage, dell’orrore nel vedere pezzi dei corpi degli agenti, fra cui il seno di Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio, fra i quali non riconosceva il fratello. Le parole si sono interrotte dalla commozione di Luciano che poi ha raccontato come lui stesso ha arrestato Giovanni Brusca, l’assassino materiale del fratello.

Altre cose non tornano. Dopo l’esplosione di Capaci, Corbo scese di corsa a “proteggere” la macchina del giudice, cioè, armi in pugno, si mise accanto all’auto per evitare che chi aveva organizzato l’attentato non provasse a finire il “lavoro”, e forse alcuni erano lì fra coloro i quali arrivarono a cercare di aprire l’auto dove Falcone e la compagna ancora respiravano. Non si era reso conto che l’altra auto era stata sbalzata per metri in aria e lanciata con i suoi compagni in un giardino distante decine di metri, dove i corpi orrendamente mutilati, avevano perso qualsiasi fisionomia.

Ancora non torna la sparizione di un rullino fotografico: un fotografo professionista aveva scattato foto della zona, forse aveva ripreso i volti di persone che non “dovevano” essere lì. Quel materiale fotografico fu “sequestrato”, senza il necessario verbale e senza che mai arrivasse sul tavolo degli investigatori…

È quindi iniziata la raffica di domande degli studenti.

Angelo Corbo ha così spiegato che se nel primo maxiprocesso furono condannati tantissimi mafiosi, invece per il secondo maxiprocesso, su cui Falcone ancora lavorava insieme a Borsellino, Di Lello e Guarnotta, si stava indagando su altri fatti che avrebbero coinvolto personalità di più alto livello, fra cui “pezzi grossi” politici e forse proprio questo ha spinto qualcuno più in alto dei mafiosi a far eliminare prima Falcone e poi Borsellino. Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta facevano parte del pool antimafia che era stato costituito da Antonino Caponnetto (subentrato a Rocco Chinnici, ucciso il 29 luglio 1983, che aveva ideato il pool per fare in modo che non un singolo magistrato, ma un gruppo si occupasse di una medesima indagine, diluendo i rischi e le responsabilità personali e distribuendo il carico di lavoro e permettendo che la morte di un magistrato non causasse il blocco delle indagini). Il pool antimafia fu poi smembrato dal procuratore Meli.

“È cambiata la sua vita dopo quel giorno?”. Dura la risposta di Angelo: “Sì, quel giorno sono morto insieme ai miei amici e compagni e sono rimasto per 20 anni con un gravissimo peso sulle spalle: la vergogna per quello che era accaduto e per essere ancora vivo. Solo dopo 20 anni ho voluto rompere il silenzio e raccontare quello che mi tormentava per testimoniare ai ragazzi quanto avvenuto”. È un dramma che non si dimentica e con il quale ci si contorce, sentendosi soli. I sopravvissuti muoiono ogni giorno, sentono la “colpa” di essere vivi mentre i propri cari sono morti e, solo grazie alla presenza dei ragazzi, nei quali vive il futuro, si ritorna ad esistere e per questo Angelo Corbo ha ringraziati i nostri “meloncini”, sottolineandone la compostezza e la civiltà. Quel peso è durissimo da sopportare proprio perché si è lasciati soli. Il fatto stesso che si ricordino giustamente i nomi dei martiri, ma non si citino i sopravvissuti, sembra indicarne una colpa che non hanno. Ad esempio, perché, insieme a Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, non si cita mai Antonio Vullo, sopravvissuto alla strage di via d’Amelio perché stava spostando l’auto per liberare la strada? Per essere eroi occorre per forza morire? Non è sufficiente rischiare la propria vita per il bene della comunità? Perché ci si commuove per la morte per cause naturali di un giovane calciatore, ma non per la morte di un giovane poliziotto ucciso da un pacco bomba o quella di un povero senegalese ucciso da un pazzo? Cosa hanno di diverso queste morti da meritare risonanza diversa?

“Sapendo cosa sarebbe accaduto, avrebbe cambiato lavoro?” Negativa la risposta: se avesse saputo, avrebbe ugualmente fatto il poliziotto e avrebbe cercato comunque di difendere Falcone Rimane orgoglioso delle proprie scelte che non rinnega assolutamente. Corbo era ed è dalla parte giusta e ancora oggi rivendica con orgoglio di aver fatto parte di quella squadra di eroi che sapeva perfettamente quale rischio corressero, come lo sapeva il giudice Falcone. Tutti loro sapevano di essere dei “morti che camminavano”, tutti loro avevano paura, è da sciocchi non avere paura, ma nessuno di loro si è mai dimostrato vigliacco. Lui e tutti gli altri, erano disposti a morire al posto di Falcone. Ciascuno di loro conosceva alla perfezione i propri compiti ed i rischi che correvano. Ciascuno avrebbe rifatto gli stessi gesti. Corbo ha però ricordato una persona che forse non avrebbe meritato di morire quel giorno. Se lui e Gaspare erano di turno nella squadra quel pomeriggio, altri avevano il turno la mattina, ma si erano resi disponibili quel pomeriggio per carenza di personale e per ottenere lo straordinario. Invece Rocco era al primo giorno in quella squadra, e vi era stato chiamato casualmente, mancando il numero. Tutti loro sapevano che sarebbero morti in quel lavoro, essendo vicini a Falcone. Certo non sapevano quando né come sarebbe accaduto, ma erano pronti a morire. Invece Rocco no: era assegnato ad altro incarico e non avrebbe dovuto essere lì con loro. Alla domanda cattiva postagli, ovvero: “Se avesse potuto, chi avrebbe salvato fra Rocco Dicillo e Giovanni Falcone”, la risposta è stata chiara e decisa: Rocco perché non aveva scelto di far parte di quel gruppo di condannati a morte. Sì, avrebbe salvato Rocco, ma poi aggiunge: “Se avessi potuto li avrei salvati entrambi, sacrificando me stesso”.

“È servita la morte di Giovanni Falcone?”. Anche qui la risposta non ammette tentennamenti: non è servita in nessun senso e la dimostrazione è che ancora la mafia esiste ed in questa mattinata non si sta parlando di “storia”, ma di “attualità”. Oggi la mafia ha raggiunto anche Paesi che 20 anni fa erano ritenuti indenni (ad esempio la Svezia o, per chi ha ascoltato i telegiornali, la Slovacchia con l’assassinio del giornalista Jan Kuciak e della sua fidanzata) ed anche qui a Ladispoli la mafia c’è. La mafia si propaga facilmente laddove lo Stato non è presente, non è supportato o dove sono presenti persone che antepongono i propri interessi a quelli della comunità. Ma lui ha ancora fede nella giustizia. L’attentato avvenne il 23 maggio 1992, e fin dal 1 agosto riprese il lavoro da poliziotto e fu trasferito da Palermo, la sua città, a Firenze, alla scientifica, dove nemmeno sapevano chi stesse arrivando (non era nemmeno arrivato il fonogramma di avviso) né chi fosse. Avrebbe avuto molte possibilità di lasciare la Polizia di Stato o fare il “furbo” per lavorare diversamente, ma lui ama l’Italia e Palermo in particolare, e non le tradirà mai.

“Cosa ha rappresentato Falcone?”. Falcone era la figura del riscatto di una città che non voleva essere schiava di nessuno. Con il suo assassinio, Angelo si è sentito “scippato” di una persona che credeva nella giustizia e nella legalità, si è sentito privato di una persona in cui credeva, una persona che ci avrebbe aiutato a tornare liberi. Falcone, se fosse sopravvissuto, forse avrebbe cambiato il modo di lavorare… Per come lo ha conosciuto, anche se rigido e burbero, estremamente professionale e rigido, amava i ragazzi della sua scorta e si sarebbe sentito in grave colpa per la loro morte.

Ma Falcone non è morto solo per mano della mafia, ma anche per ordine di chi, facendo parte delle Istituzioni, le ha tradite, tradendo in vita Falcone, infangandolo di menzogne ed infine facendolo uccidere dal nemico dello Stato. Non si tratta di illazioni perché ancora si sta indagando per un gravissimo processo: quello sulla trattativa fra Stato e Mafia che fa ritenere che sia stato proprio la parte deviata dello Stato a volere la morte dei giudici che stavano arrivando ai collegamenti fra mafia e politica.

Angelo Corbo ha concluso ringraziando per il sorriso con cui lui ha potuto terminare l’incontro. Il sorriso di felicità che è sbocciato per la constatazione del silenzio e dell’attenzione dei ragazzi presenti, segno di intelligenza, di maturità e di antimafiosità intrinseca. Il rispetto che ha mantenuto chi magari si è annoiato, ma non ha disturbato i propri compagni, considerando il loro diritto a poter continuare ad ascoltare, è l’esatto contrario del mafioso che si disinteressa del diritto altrui perché riconosce solo il diritto proprio, negandolo agli altri. “Apprendendo e comprendendo si batterà la mafia” ha detto Angelo Corbo, che ha confessato di avere sentito i ragazzi di questa sala teatro vicini a sé, vicini a Giovanni Falcone, vicini a Francesca Morvillo, vicini agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e vicini ai 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.

Una giornata davvero memorabile per tutti noi! Grazie ad Angelo Corbo per la preziosa testimonianza.

 

Stefania Pascucci e Riccardo Agresti

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