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“Mi hanno detto che le donne non devono sapere troppo, ché fa paura. Ma io, io volevo solo capire come si cresce il rosmarino dopo la pioggia”
Queste parole strazianti, quasi poetiche, non provengono da un romanzo, ma potete ritrovarle in un fascicolo processuale. Un processo per omicidio, anzi peggio, per infanticidio. Peccato che l’accusa fosse falsa e che l’imputata fosse innocente. Anzi no: era colpevole di essere donna, colpevole di sapere leggere e scrivere (cosa rarissima per una donna dell’epoca), colpevole di essere bella, colpevole di voler studiare e conoscere sempre di più, colpevole di volere essere libera, colpevole di voler vivere.
La stregoneria
Ma andiamo all’inizio. Andiamo in un periodo in cui è in vigore il decreto di papa Giovanni XXII che indica la stregoneria come reato punibile e in un territorio in cui il popolo ignorante spiega il proprio dolore come proveniente da avversità ignote di origine esterna, da malefici, da interventi del demonio. Siamo in un mondo in cui per vendetta, per motivi reali o presunti, si desidera e si agisce per la morte di qualcuno. Siamo in uno Stato dove si usa la legge, ma non si cerca giustizia.
Una figlia naturale
Siamo tra le colline affacciate sul Tevere, tra il 1475 e il 1478, a Collevecchio, sulla riva sabina del fiume, dove nasce una bimba, Bellezza, figlia naturale di Pietro Angelo Orsini, del ramo meno potente della famosa casata.
La bellissima giovane, ma figlia illegittima, venne poi presa a servizio a Monterotondo, nel palazzo Orsini, dove conobbe una “guaritrice” di Ponzano, tale Lucia, della quale diventò amica e dalla quale imparò ad usare le erbe. Bellezza era libera, sapeva leggere, in un periodo nel quale erano pochissime anche le donne delle famiglie illustri a saperlo fare. Sapeva scrivere e pensare. Sposò infine un cerusico, ma rimase vedova prestissimo e iniziò a curare i malati da sola, con un certo successo, seguendo l’opera imparata dal marito e l’uso noto delle erbe conosciuto da Lucia e leggendo testi come l’“Herbolario volgare”.
L’accusa di omicidio
Con la fama arrivarono però sospetto, invidia e vendetta. Per avere “pace”, Bellezza decise di partecipare ad una processione della “Perdonanza” dal paese a Roma. Durante il viaggio un bambino si sentì male e Bellezza fu chiamata al suo capezzale. La donna cercò di curarlo, lo assistette, ma capì subito che non si sarebbe salvato, che non poteva fare alcun miracolo. Il piccolo morì e i genitori, accecati dal dolore, dall’ignoranza o dalla vendetta o forse per tutte queste ragioni, la accusarono di omicidio.
Venne arrestata e portata nelle segrete della rocca di Fiano Romano, sede del Tribunale, sotto la giurisdizione del conte Ludovico Orsini. Il collegio giudicante era composto da un giudice inesperto e influenzabile, Marco Calisto da Todi, e dal notaio Lucantonio da Spoleto. L’accusa, sotto la pressione dei paesani, mutò presto in quella di fattucchieria, poi in quella di stregoneria e il processo andò avanti basandosi su testimonianze ambigue. Testimoniarono delle sue capacità mediche anche i suoi “pazienti” di Filacciano e Ponzano, paesi da cui era stata cacciata quando aveva fallito alcune cure.
I sabba a Benevento
Bellezza fu sottoposta a torture feroci e inenarrabili. Con il tormento fisico le trasferirono il loro stesso terrore da ignoranti. E Bellezza confessò ogni cosa che volevano raccontasse, anche l’impossibile, Dal verbale del processo risulta che dichiarò di essersi congiunta carnalmente con il diavolo; di essere andata con lui a cavallo, strega insieme ad altre streghe, fino a Benevento per partecipare a sabba e malefici e tante altre amenità fuori di senno. Aveva inventato l’inferno per placare il dolore. L’assurdità delle confessioni era evidentissima, ma nessuno era dalla sua parte e nessuno volle intervenire per salvarla. Il processo era una farsa. Il giudice, Marco Calisto da Todi, tremava più di lei. Il notaio, Lucantonio da Spoleto, scriveva ogni parola come fosse verità, anche quando era puro delirio.
Stremata e allucinata dal dolore, trovò però la forza di scrivere durante la prigionia nel 1528, o più probabilmente dettando le sue parole al figlio, per raccontare la sua storia per il figlio stesso, per le donne, per il futuro.
La vera confessione
Bellezza, scalza sul pavimento gelido della cella, le caviglie livide, le mani tremanti, il sangue che le colava ancora dalle unghie spezzate, aveva capito che non sarebbe sopravvissuta, ma che avrebbe potuto far sopravvivere la verità, sconfiggendo in tal modo l’ingiustizia che la stava massacrando giorno dopo giorno.
Le avevano detto che le donne non devono sapere troppo. Che leggere è peccato. Che scrivere è eresia. Che pensare è stregoneria. Eppure lei aveva letto. Aveva scritto. Aveva pensato. Aveva curato con le erbe, con le mani, con la voce. Aveva amato la vita. Per questo la volevano condannare e per questo il pensiero doveva sopravvivere e disse parole in un italiano popolare, diretto e vibrante, della sabina. Non il latino dei giudici, ma la lingua del popolo, rendendo il testo accessibile e autentico per tutti.
La stregoneria di Bellezza Orsini è la sete di conoscenza vietata alle donne
Il quaderno di Bellezza Orsini è un documento straordinario che offre una visione profonda e personale della stregoneria, ben lontana dalle fantasie demoniache imposte dagli inquisitori. Bellezza ci spiega che la stregoneria non è il sabba col Diavolo, come raccontato sotto tortura per far terminare l’indescrivibile tormento cui era sottoposta. Parla di erbe, rimedi, e pratiche curative, rivendicando il sapere delle donne come forma di medicina e saggezza, non di maleficio: una sfida radicale alla visione inquisitoria e patriarcale del tempo.
In quel quaderno, ribaltando la narrazione del tribunale, affermò la dignità del sapere femminile e vi si ritrova la terribile risposta, alla domanda del giudice, su cosa fosse la stregoneria:
“La concrusione, lu fonno: quante più cose cierchi de inparare tante più sonno quelle che trovi da ‘nparare, che prima nemanco ne tenevi sentimento, e più vai inanti più vo’ ire e non te ne cuntenti. Cusì è la strearia”.
La “strearia”, la stregoneria, per Bellezza era il sapere, la curiosità di chi non si accontenta di una spiegazione banale, ma vuole conoscere ancora di più. Il desiderio inesauribile di sapere che è proprio delle persone intelligenti.
La beffa al giudice
Bellezza sapeva che la condanna al rogo per stregoneria avrebbe causato la distruzione del suo corpo e anche di quel quaderno. Questo prevedeva la legge per una strega. Ma volle giocare uno scherzo beffardo al giudice.
Prima della ormai certa sentenza di morte, nella cella in cui era rinchiusa, con un chiodo, reperito chissà come in carcere, si colpì due volte la carotide e morì in un lago di sangue. Due colpi e il silenzio della bocca, mentre la sua testimonianza era ormai inviata al futuro.
La trovarono a terra nella cella, distesa, il volto sereno, gli occhi chiusi per sempre, ma con un sorriso sulle sue ancora belle labbra. Aveva beffato il giudice e la legge, ma salvato la giustizia inoltrando al futuro la prova della sua innocenza proprio grazie alla legge stessa che la condannava alla pena capitale. Il processo era stato interrotto dalla sua morte e conseguentemente le sue memorie non potevano essere distrutte, ma andavano inserite nel fascicolo del processo ed archiviate. Quel fascicolo è arrivato fino a noi, conservato negli scaffali della Sala Alessandrina dell’Archivio di Stato di Roma. Porta la data del 1540.
Il sapere non doveva andare su rogo
Il suo gesto estremo fu un atto di resistenza e salvezza della memoria: il sapere non doveva morire con lei. Evitando il rogo, salvò il suo quaderno, che oggi rappresenta una delle testimonianze più vibranti della voce femminile nel Rinascimento italiano.
La storia di Bellezza è diventata simbolo della persecuzione contro le donne sapienti e indipendenti e si inserisce in una lunga storia di persecuzioni contro donne sapienti, spesso accusate di stregoneria per il solo fatto di possedere conoscenze mediche, botaniche o scientifiche ante litteram.
La sua figura è stata riscoperta grazie agli studi di Michele Di Sivo e altri storici, che hanno restituito dignità a una donna che fu vittima della paura del sapere. Il suo quaderno è un manifesto della libertà intellettuale e della resistenza contro l’oppressione. Oggi le parole di quella strega vivono al suo posto nelle mani delle donne che curano, che insegnano, che sognano, che si interrogano, che non si accontentano, che imparano ogni giorno di più. Il sapere vuole sapere, e non si ferma.
Riccardo Agresti


