La Bassa
Immagina di avanzare in una pianura velata: l’aria è spessa, sospesa, quasi incantata. Pare custodire il respiro di un organo antico, che vibra tra siepi di bossi o accanto a un recinto di buoi, evocando il suono stesso della radice agricola e pastorale del nome del luogo.
In questa terra fertile, dove la vita scorre semplice e contadina, emergono le prime case di Roncole Verdi dove una dimora umile, di mattoni e silenzio, racconta l’inizio di una storia destinata a farsi universale: il 10 ottobre 1813, lì nacque Giuseppe Verdi, e con lui il seme della gloria di Busseto.
Tra campi e cascine sorge discreta la piccola chiesa di San Michele, con mura umili e un campanile che si innalza come una sentinella contro il cielo velato. Il portale, semplice e antico, accoglie da secoli i passi dei fedeli del villaggio. Un edificio sorto circa mille anni fa, ma ancora palpitante di voci e preghiere quotidiane. Dentro, l’aria sa di incenso e di legno, e nella penombra si erge l’organo di Giuseppe Cavalletti del 1797, gigante silenzioso che vegliò sul bambino Giuseppe: curioso, timido, intento a sfiorare i tasti con dita inesperte, cercando melodie.
Qui fu battezzato, qui imparò a suonare, qui la comunità lo vide crescere e qui, tra le mura semplici di San Michele, nacque il desiderio di scrivere la musica che avrebbe conquistato il mondo.
Accanto all’osteria paterna viveva la famiglia Verdi. Giuseppe bambino cresceva tra il brusio delle voci e il profumo del pane caldo, mentre il padre Carlo serviva con calma e dignità, custode di un’umile fierezza. Luigia, la madre, filava silenziosa: mani pazienti che trasformavano il filo in sostegno, un lavoro modesto ma prezioso, capace di tenere insieme la casa e i sogni. Carlo, pur senza ricchezze, era stimato: sapeva leggere e scrivere, e affidò la sua serietà persino al tesoro della chiesa di San Michele. In quella semplicità, Giuseppe imparò che la grandezza nasce dall’umiltà.
Ogni giorno, il giovane Giuseppe affrontava il sentiero che dalla campagna lo conduceva al cuore di Busseto: un’ora di passi tra nebbie e campi, per raggiungere il ginnasio e le lezioni di musica. Ma un giorno, quel cammino divenne teatro di un destino sospeso: ancora bambino, scivolò in un fosso colmo d’acqua, e l’abbraccio gelido rischiò di spegnere la sua voce prima che fosse canto. Furono mani contadine, forti e pronte, a sollevarlo dall’acqua, a restituirlo alla vita, a salvare, senza saperlo, la musica che avrebbe conquistato il mondo.
Un suocero padre
La sua famiglia non poteva offrirgli studi avanzati, ma il destino gli donò un incontro che cambiò tutto: Antonio Barezzi, droghiere benestante e appassionato di musica, lo accolse nella sua casa come un figlio. Gli fece conoscere Ferdinando Provesi, maestro della banda musicale. Tra spartiti e prove d’orchestra scoprì che la musica non è soltanto intuizione, ma disciplina, architettura, costruzione: un edificio di suoni che si regge su regole segrete, svelate dal contrappunto e dalla composizione. La Casa Barezzi, oggi museo, divenne il vero cuore della sua formazione: scaffali colmi di libri, strumenti musicali, conversazioni colte. In quel mondo diverso, Giuseppe insegnò pianoforte alla figlia Margherita, che sarebbe poi diventata sua moglie e per la coppia Antonio acquistò Palazzo Tedaldi. Ma soprattutto, Verdi imparò che il talento non basta: ha bisogno di un terreno fertile, di fiducia, di sostegno. La casa di Barezzi fu per lui accademia, rifugio, trampolino. Fu lì che il ragazzo della piccola Le Roncole diventò musicista.
A Milano, nel 1832, il giovane di campagna giunge alle porte del Conservatorio. Porta con sé speranze fragili, studi privati, il sostegno di Barezzi. Ma la commissione lo respinge: mani acerbe sul pianoforte, contrappunto incerto, età giudicata troppo avanzata, “origine forestiera” (Busseto era nel ducato di Parma e non faceva parte del Regno Lombardo Veneto). Un “no” che poteva suonare come condanna, e invece fu l’inizio: chiusa una porta, se ne aprì un’altra.
Giuseppe Verdi era un ragazzo dal talento straordinario, ma il sogno di Milano pesava come un fardello di denaro mancante. Allora il padre Carlo, uomo semplice, e Antonio Barezzi, mecenate e quasi padre adottivo, si mossero insieme: chiesero un sussidio al Monte di Pietà di Busseto o a quella di Parma. Quell’istituzione, nata per soccorrere i più bisognosi, i cui locali oggi ne custodiscono la memoria nella Biblioteca della Fondazione Cariparma. Ciò che ottennero non fu soltanto denaro: fu fiducia, fu investimento, fu speranza di un’intera comunità riposta in un ragazzo. Col tempo, qualcuno narrò che il Monte avesse chiesto la restituzione al Maestro ormai celebre. Ma la storia non trova conferme: è più leggenda che realtà.
A Milano, Giuseppe trovò un maestro: Vincenzo Lavigna, maestro alla Scala. Con lui scoprì che la musica non è soltanto tecnica, ma voce che vibra, passione che arde, vita che si compone in suono. Il Conservatorio lo aveva respinto, ma proprio quel rifiuto lo liberò: non sarebbe mai stato un accademico, sarebbe stato un creatore.
Quando nel 1833 morì Ferdinando Provesi, Verdi divenne direttore della banda musicale di Busseto. La sua esistenza si divise allora tra due mondi: nel borgo era già riconosciuto come musicista, a Milano restava ancora studente, affinando tecnica e stile, nutrendo il talento che presto avrebbe conquistato il tempo e la storia.
La tragedia
Nel 1840 Giuseppe Verdi si ritrovò avvolto dalla solitudine più crudele: i due figli, nati dall’amore con Margherita, erano già scomparsi, e poco dopo anche lei, la compagna amata, cadde nel silenzio della morte. Un dolore immenso, che non fu solo ferita privata, ma marchio indelebile sulla sua vita e sulla sua musica. A quella tragedia si aggiunse l’umiliazione pubblica: il fiasco clamoroso della sua seconda opera, come se il destino volesse schiacciarlo sotto il peso della perdita e del discredito. Palazzo Tedaldi, che un tempo aveva custodito l’amore e la paternità, si trasformò in teatro di lutto e solitudine: un palcoscenico segreto, dove la vita recitava il suo dramma più feroce. Eppure, da quelle macerie nacque la forza del Maestro: il dolore si fece canto, la tragedia si mutò in arte universale. Così Verdi, segnato dalla morte e dalla sconfitta, seppe trionfare in Italia e nel mondo, trasformando la sua ferita in musica eterna.
Verdi tornò, ricco e acclamato, alla sua terra. Avrebbe potuto vivere tra gli onori di Parigi, Londra, Venezia, ma scelse Busseto e, nel 1849, con Giuseppina Strepponi, compagna di vita e di musica, si stabilì nel palazzo Cavalli. Era il richiamo delle radici, della pianura che lo aveva visto nascere. Ma la comunità non accolse bene quel ritorno: i bussetani non perdonarono né la convivenza fuori dal matrimonio, né la presenza di Giuseppina, segnata da figli illegittimi e mistero. La cattolica Busseto si era scandalizzata e Verdi si sentì giudicato, isolato, respinto. Non rinnegò la sua terra, ma decise di osservarla da lontano, rifugiandosi nella solitudine di Sant’Agata, ora villa Verdi, tra orti e vigne, animali e stanze silenziose, dove il fiume Ongina scorre lento e la nebbia avvolge i campi come un velo di malinconia. La villa divenne il suo regno privato, un laboratorio segreto dove il dolore si mutava in canto. Fu un ritorno, ma non un abbraccio. Eppure, da quelle mura solitarie nacquero opere immortali: Rigoletto, Il Trovatore, La Traviata. La campagna si fece officina di genio, il silenzio si trasformò in voce universale. Busseto rimase sullo sfondo: amata e respinta, radice e ferita insieme.
Anche il cuore di Busseto conserva il segno di Giuseppe Verdi: la Rocca Pallavicino, oggi municipio, testimone di secoli medievali e rinascimentali, quando la città fu capitale di uno Stato piccolo ma influente, che lasciò tracce profonde nella cultura della pianura. Dentro la Rocca pulsa un gioiello ottocentesco: il Teatro Giuseppe Verdi, inaugurato nel 1868, piccolo, elegante, raffinato, scrigno di velluti e armonie. È ancora il cuore delle celebrazioni verdiane, dove festival e stagioni musicali rendono omaggio al cittadino più illustre.
Alla sua inaugurazione, le signore si vestirono di verde, i signori portarono coccarde dello stesso colore, ma il Maestro non partecipò, né mai mise piede in quel teatro. Per lui era un lusso inutile, un peso sulla comunità, ma più ancora lo teneva lontano il contrasto con i bussetani: sentiva l’invadenza nei suoi affetti, il giudizio severo sulla sua relazione con Giuseppina Strepponi, che infine sposò il 29 agosto 1859. La sua assenza fu un gesto eloquente: difendere la propria indipendenza, anche contro gli omaggi. Così il Teatro Verdi rimase un gioiello architettonico, ma anche simbolo di distanza. Il Maestro amava la sua terra, ma non piegava il cuore all’ipocrisia né all’orgoglio mal riposto. Il suo rifiuto non fu disprezzo per l’arte, ma atto di coerenza: ricordare che la musica nasce dal cuore, non dalle mura.
A Milano, Giuseppe Verdi visse le sue ultime ore. Nella notte sospesa tra il 26 e il 27 gennaio, alle 2:50 il suo respiro si spense e, con esso, tacque la musica che aveva dato voce al mondo. La stanza del Grand Hotel et de Milan, ancora oggi custodita come reliquia, è memoria viva di quell’addio silenzioso, del “cigno di Busseto” che trasformò il dolore e la vita in canto eterno.
Carlo V e Paolo III
Tre secoli prima, nel 1543, il borgo emiliano di Busseto, già intriso della grandezza dei Pallavicino, si trovò improvvisamente al centro della storia europea. Nella Rocca Pallavicino giunse Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, reduce da guerre e trattative che scuotevano il continente. Ad attenderlo, papa Paolo III Farnese, il pontefice che avrebbe convocato il Concilio di Trento per affrontare la frattura della Riforma. Fu un incontro solenne: per un giorno, la piccola capitale di un feudo divenne crocevia di potere e diplomazia e la Rocca si consacrò teatro di grandi decisioni.
La memoria di quell’evento vive ancora in una lapide cinquecentesca sulla facciata della Collegiata di San Bartolomeo Apostolo, posta decentrata dall’altro lato di piazza Verdi, le cui mura gotiche e barocche riflettono la storia di un borgo intero. Costruita nel Quattrocento, arricchita nei secoli, la collegiata custodisce tesori d’arte: gli affreschi dei Dottori della Chiesa di Michelangelo Anselmi ed altri, i quindici tondi dei Misteri del Rosario di Vincenzo Campi, intensi e narrativi, l’altare maggiore settecentesco di Giovan Battista Febbrari, antichi affreschi sulle colonne d’ingresso, un coro neoclassico e un tesoro che ancora oggi parla di fede e bellezza.
Ma la collegiata è anche legata al Maestro. Qui Verdi studiò sull’organo e qui, il 4 maggio 1836, in una cappella dell’Oratorio della Santissima Trinità, innalzato in continuità con la collegiata intorno al XIV secolo, si unì in matrimonio con Margherita Barezzi, figlia di Antonio, il suo grande sostenitore e quasi padre spirituale. Fu un’unione di speranza e di musica, destinata però a durare poco. La morte precoce di Margherita segnò profondamente la vita e l’arte di Verdi, lasciando nelle sue opere un’impronta di dolore e di forza, trasformata in canto universale.
Peppone e don Camillo
La collegiata è celebre anche per il crocifisso custodito nella prima navata a sinistra, quello che ispirò Julien Duvivier, regista della saga di “Peppone e don Camillo” il cui primo film uscì nelle sale il 15 marzo 1952.
Per girare il film e realizzare il “Crocifisso parlante” che dialoga con il prete burbero e generoso inventato da Giovannino Guareschi nel suo “Mondo piccolo”, Duvivier fece scolpire una copia sul modello di Busseto, in legno di cirmolo, leggero perché Fernandel non poteva reggere pesi. Le teste erano intercambiabili: Gesù poteva ridere, piangere o adirarsi, secondo i dialoghi con il prete. Dopo le riprese, la copia sembrò scomparsa, ma fu ritrovata in un magazzino di Cinecittà. I cittadini di Brescello, set della serie, vollero riportarla nella loro chiesa parrocchiale, dove oggi è restaurata e venerata, meta di preghiere e ceri accesi.
La serie, controversa per motivi politici, fu affidata al regista francese Duvivier, che modificò la sceneggiatura, scatenando l’ira di Guareschi. “Il mio pretone e il mio grosso sindaco li ha creati la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto”, diceva lo scrittore, che scelse di vivere l’ultima parte della sua vita accanto alla casa natale del Maestro Verdi, a Le Roncole di Busseto, oggi Roncole Verdi, “per stare all’ombra di un grande”.
Lì aprì il suo ristorante, oggi sede dell’Archivio Guareschi, curato con dedizione dal figlio Alberto, custode tenero della memoria paterna. Lo scrittore riposa nel piccolo cimitero di fronte, insieme alla moglie Ennia — la Margherita dei suoi racconti — e alla figlia Carlotta, la Pasionaria.
Il Museo Renata Tebaldi è dedicato al celebre soprano, la “voce d’angelo” della lirica italiana, custodisce abiti di scena, fotografie, registrazioni: memorie che raccontano una carriera luminosa, ponte ideale tra l’eredità di Verdi e la tradizione operistica del Novecento.
Santa Maria degli Angeli, chiesa e convento, si svela come un complesso di grande fascino: chiostri silenziosi, opere d’arte che tramandano storie popolari e vita monastica. Tra le navate gotiche, il dolore scolpito probabilmente da Guido Mazzoni prende forma: otto figure in terracotta piangono il Cristo morto, con volti intensi, umani, vibranti, come se il Quattrocento avesse voluto consegnarci un frammento di eternità.
Poco distante è il Museo Nazionale Giuseppe Verdi che propone un percorso storico basato sulle 27 opere del maestro.
Busseto è anche buon cibo
Busseto non è soltanto musica o letteratura: è anche tavola. Qui il culatello di Zibello DOP matura lentamente nelle nebbie, la coppa racconta la gioia della convivialità, il fiocchetto custodisce la delicatezza delle origini e il Parmigiano Reggiano si fa simbolo universale. In ogni trattoria, un bicchiere di lambrusco o di fortana accompagna i salumi, trasformando la visita in un vero concerto di sapori.
Lungo via Roma si trova la Salsamenteria Baratta, frequentata da Verdi e altri nomi illustri della cultura italiana, che mostra in vetrina uno spartito che non è solo decorazione, ma testimonianza viva della presenza verdiana. Il foglio musicale, ingiallito dal tempo, riporta le note di una delle opere più celebri di Verdi, “La Traviata”, composta nel 1853 e ambientata tra Parigi e la tragedia. Quel frammento è esposto accanto ad altri cimeli: medaglie, ritratti, onorificenze, strumenti musicali, tutti elementi che trasformano il locale in un piccolo santuario laico della cultura musicale. Alla Baratta, quel foglio diventa simbolo di un’Italia che non separa l’arte dalla vita quotidiana. È come se Violetta, Alfredo e Germont si sedessero a tavola con noi, tra un bicchiere di vino e una fetta di culatello.
Alla fine della visita, si comprende che Busseto non è solo un piccolo borgo, ma un mito che risuona tra note e nebbie, tra musica e cucina. Un luogo dove la cultura si assaggia, si legge, si ascolta, e dove ogni piatto diventa un’aria verdiana.
Un crocevia di arte, storia e mito, dove la musica incontra la campagna emiliana e ogni pietra racconta un frammento di Italia.
Riccardo Agresti


