5 Dicembre, 2025
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Cinquant’anni senza Pasolini e il tempo non ha spento la sua voce

La notte del 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini veniva assassinato a Ostia. La dinamica della sua morte fu subito chiara: morì come i protagonisti dei suoi romanzi. Ma presto si comprese che il racconto del “ragazzo di vita” Pino Pelosi non corrispondeva al vero.

Come prima reazione acquistai Scritti corsari, una raccolta di articoli pubblicati dal Corriere della Sera: volevo capire il Pasolini polemista. Alberto Moravia, nell’orazione funebre, urlò al mondo che Pasolini era un poeta, e che di poeti ne nascono tre o quattro in un secolo.

Pasolini nacque poeta nella Casarsa di sua madre Susanna. Compose poesie in lingua friulana, esempio di poesia civile. La sua ricerca di una lingua autentica, lontana dalla modernità borghese, proseguì anche dopo il trasferimento a Roma, dove, accanto a una poesia carica d’impegno politico e di denuncia sociale, iniziò a scrivere romanzi sul sottoproletariato romano, raccontando “gli ultimi” con una lingua colta e dialoghi in dialetto romanesco.

Non l’ho mai incontrato, nemmeno quando venne a giocare a Bracciano con la Nazionale Attori e Cantanti, la squadra di calcio nata da una sua idea per raccogliere fondi destinati ai poveri. Ma ho vissuto nei suoi luoghi: a Concordia Sagittaria, vicino a Casarsa della Delizia, dove è sepolto con la madre e il fratello Guido; nei pressi della Torre di Chia, dove si ritirò in solitudine e scrisse Petrolio, il suo ultimo romanzo. Un luogo a lui caro, dove girò il battesimo di Gesù nel film Il Vangelo secondo Matteo; non lontano dal luogo della sua morte: l’idroscalo di Ostia dove, quando Nanni Moretti arrivò con la sua Vespa nel film Caro Diario, s’intravedeva, circondato da erbacce e rifiuti, un monumento in cemento, eroso dalla salsedine e ferito dalle martellate provocate dai fascisti. Quel monumento fu poi sostituito da una nuova versione dell’opera, in travertino, realizzata dallo stesso scultore Mario Rosati e collocata al centro di un rinnovato parco, curato dalla LIPU.

Un giusto riconoscimento a un intellettuale scomodo, un eroe civile che cercava protezione nell’amore per la madre, che visse con radicale coerenza il tormento della sua diversità, e che subì trentatré processi, anche dopo la morte.

La sua polemica contro le ingiustizie del mondo e il suo grido d’allarme verso la società dei consumi lo portarono a criticare il potere, ma anche – come nella poesia Il PCI ai giovani – gli studenti borghesi del Sessantotto: “Avete facce di figli di papà… buona razza non mente”. Criticò anche il PCI, che però non smise di amare, perché rappresentava il popolo. Lo dimostra il suo ultimo atto politico: il giorno dopo quel 2 novembre sarebbe dovuto intervenire al Congresso del Partito Radicale. Il testo fu letto da Vincenzo Cerami: “Non sono qui come radicale, non sono qui come socialista, sono qui come marxista che vota per il PCI”. Parole scritte da chi era stato espulso dal partito e aveva perso il fratello Guido, partigiano ucciso dai comunisti a Porzûs.

C’è tutta la voglia di scandalizzare, l’anticonformismo che ha attraversato l’intera opera di una figura centrale della nostra cultura. Pasolini non va semplicemente commemorato: ha lasciato un’eredità che oggi dovremmo raccogliere e valorizzare per comprendere meglio la complessità del presente. Una necessità che testimonia la disperata vitalità della sua voce.

Lorenzo Avincola

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