20 Aprile, 2024
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L’America di tutti i complotti che Trump ha promosso a linguaggio delle istituzioni

Lo stile paranoico alla Casa Bianca. 

Dal maccartismo alla John Birch Society fino a Alex Jones e a QAnon, la «fantasia cospiratoria» raccontata anche nei romanzi di Roth, De Lillo, Pynchon o Ligotti

In quello che la Cnn ha bollato come il discorso «più disonesto della sua presidenza», mercoledì notte Donald Trump non ha solo rivendicato una vittoria che i numeri smentiscono, ma ha più o meno esplicitamente evocato l’idea che nei suoi confronti sia in atto una qualche macchinazione, un «complotto» bello e buono. Una linea che accompagnerà l’annunciato tramonto della sua amministrazione, ma che ne ha anche in qualche modo scandito l’intera esistenza. Perché se c’è una caratteristica della presidenza Trump che ha pesato e, c’è da crederlo, continuerà a pesare sulla politica americana anche dopo la possibile uscita di scena del personaggio, è proprio l’aver offerto alle tesi complottiste da sempre presenti in consistenti margini del Paese, la platea della comunicazione mainstream quando non quella delle istituzioni.

Lo si era del resto visto fin dall’inizio, quattro anni or sono, quando pronunciando il suo discorso di insediamento davanti al Congresso nel gennaio del 2017, Trump aveva intrecciato il suo messaggio populista e anti-élite con una evidente retorica complottarda. «Oggi – aveva detto l’allora neo-presidente – non trasferiamo solo il potere da un’amministrazione a un’altra, o da un partito all’altro: stiamo trasferendo il potere da Washington a voi, il popolo americano (…) Per troppo tempo, un piccolo gruppo nella capitale della nostra nazione ha fatto propri i benefici del governo, mentre il popolo ne pativa i costi (…) Tutto ciò cambia a partire da qui, fin d’ora».

In realtà, a quell’esito Trump era giunto dopo essere stato durante gli anni di Obama uno dei più noti e accesi sostenitori dei cosiddetti birthers, il circuito che considerava «illegittima» quella presidenza, accusando il democratico di aver mentito sulla propria nascita, che sarebbe avvenuta in Kenya e non alle Hawaii, rendendolo così non eleggibile alla Casa Bianca. I politologi John Sides, Michael Tesler e Lynn Vavreck (Identity Crisis, 2018) sono arrivati perfino a considerare Trump come il «portavoce virtuale del movimento birther» in base all’impegno, e alle risorse impiegate per sostenerne «le ragione». Tesi paradossali, certamente, ma che hanno costretto Obama a rendere pubblico il proprio certificato di nascita, e che in ogni caso hanno usufruito di un battage costante sui media conservatori facendo conoscere ulteriormente Trump all’elettorato repubblicano già prima della sua discesa in campo nel 2015.

Una tendenza che lo storico Richard Hofstadter aveva definito fin dal 1963 spiegando come nella fasi di crisi o di trasformazione degli Stati Uniti emergesse l’idea dell’esistenza di «un vasto e insidioso newtwork internazionale, di efficacia soprannaturale, creato con lo scopo di perpetrare le azioni più diaboliche e distruggere la nazione americana e i suoi costumi»

PROPRIO DURANTE l’amministrazione del primo presidente afroamericano si è assistito del resto al ritorno sulla scena pubblica di quello «stile paranoico» che in più di un’occasione si era rivelato nel corso della storia del Paese. Una tendenza che insieme all’anti-intellettualismo di fondo della società americana, lo storico Richard Hofstadter aveva definito fin dal 1963 nel suo The Paranoid Style in American Politics, spiegando come nella fasi di crisi o di trasformazione degli Stati Uniti emergesse l’idea dell’esistenza di «un vasto e insidioso newtwork internazionale, di efficacia soprannaturale, creato con lo scopo di perpetrare le azioni più diaboliche e distruggere la nazione americana e i suoi costumi».

IL DISPIEGARSI di un «fantasia cospiratoria» che lo studioso aveva visto all’opera nel maccartismo, come nel diffondersi di gruppi anticomunisti a vocazione paramilitare, su tutti la John Birch Society. E che non di rado è stata intercettata anche dalla cultura popolare che l’ha restituita fino a renderla ancor più grottesca, o ridicola: dal generale Jack D. Ripper del Dottor Stranamore di Stanley Kubrik, fino a taluni personaggi dei romanzi di Roth, De Lillo, Pynchon o Ligotti.

La stessa retorica complottista, spesso intrecciata con i deliri razziali che annunciano un ipotetico «genocidio bianco», è riemersa in piena luce a partire dagli anni Novanta per non lasciare mai più la scena. Dall’opposizione al tentativo di Bill Clinton di porre un freno alla circolazione delle armi, almeno dei fucili d’assalto, che ha fatto da sfondo alla nascita delle Milizie, legate anche alla strage Oklahoma City del 1995 (168 vittime), fino allo sviluppo del movimento del Tea Party che durante l’era Obama ha preparato il terreno a Trump.

Affascinato dall’idea di costruire una «contro-narrazione» rispetto al sistema dei media e della comunicazione ufficiale, nel segno di un’apparente «rottura» ma anche del recupero per questa via di una serie di segnali della cultura pop nel linguaggio presidenziale, Trump ha utilizzato questi materiali simbolici senza alcuna remora o scrupolo

IL PASSAGGIO ULTERIORE è stato trasformare nel corso degli ultimi quattro anni la Casa Bianca in una sorta di centrale di questo tipo di narrazione all’insegna delle fake news e della denuncia di una qualche cospirazione. Trump lo ha fatto riscrivendo, spesso via social, ma anche nelle scelte di fondo assunte dalla sua amministrazione, interi capitoli della politica del Paese, dall’ambiente alla criminalità, passando per le scelte internazionali. Anche al di là delle decisioni assunte, il presidente si è trasformato in un megafono delle tesi di personaggi impresentabili come Alex Jones, il conduttore radiofonico noto per le sue teorie negazioniste sull’allunaggio del 1969 o sui vaccini, o sulle tesi del complotto applicate alla tragedia dell’11 settembre.

Affascinato dall’idea di costruire una «contro-narrazione» rispetto al sistema dei media e della comunicazione ufficiale, nel segno di un’apparente «rottura» ma anche del recupero per questa via di una serie di segnali della cultura pop nel linguaggio presidenziale, Trump ha utilizzato questi materiali simbolici senza alcuna remora o scrupolo. Il caso più evidente da questo punto di vista è legato a QAnon, una complessa teoria del complotto diffusa fin dal 2017 negli ambienti dei sostenitori più radicali dello stesso Trump, e verso i quali il presidente si è mostrato a più riprese compiacente, che denuncia l’esistenza di una rete segreta legata alla pedofilia e organizzata dal «Deep State», dove figurerebbero tra gli altri Hillary Clinton, Barack Obama e George Soros, accanto a molti attori liberal, politici democratici e alti funzionari del Paese, decisa ad agire contro l’amministrazione Trump.

Il circuito degli adepti di queste follie è talmente cresciuto negli ambienti della destra da portare martedì in Georgia all’elezione di una di loro al Congresso, l’imprenditrice Marjorie Taylor Greene.
Ma, malgrado le «profezie» di QAnon si siano già mostrate ovviamente del tutto infondate, come sottolinea Michael Barkun, tra gli studiosi che hanno ripreso e approfondito negli ultimi anni il lavoro di Hofstadter, e autore di Culture of Conspiracy: Apocalyptic Visions in Contemporary America (2003), resta il fatto che mutuando il tutto dalla religione, a chi crede in tali tesi «viene offerta una visione speciale del futuro e la consapevolezza che sta arrivando un grande cambiamento». Così, uno degli annunci fatti da QAnon, vale a dire «la battaglia finale tra le forze virtuose di Trump e dei suoi alleati contro il male per eccellenza rappresentato dal Deep State, dalla cui sconfitta sarebbe presumibilmente emerso una sorta di paradiso», è solo rinviato.

CHE SI TRATTI di questo drammatico dopo-voto, o del futuro prossimo della società americana, è uno scenario che descrive fino a che punto questo tipo di idee possano continuare ad avvelenare ancora a lungo il Paese.

(Il Manifesto)

 

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