19 Marzo, 2024
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Macerata, cinquanta giorni col respiratore “Mi davano per morto, è un miracolo”

Quasi due mesi di riabilitazione all’istituto Santo Stefano per il medico Bruè: “Non riuscivo ad alzare il lenzuolo”

Macerata, 23 ottobre 2020 – Il ritorno alla vita, dopo cinquanta giorni di terapia intensiva al Covid hospital di Civitanova e dopo quasi due mesi di riabilitazione all’istituto Santo Stefano di Porto Potenza. Il dottor Sauro Bruè, residente a San Ginesio, padre di quattro figli e nonno di sette nipoti, in primavera era stato dato per spacciato. Ha compiuto settant’anni una settimana fa e si ritiene “un miracolato”. Medico di base, è andato in pensione il 9 agosto, un paio di mesi prima del previsto, ma continua a lavorare nella medicina dello sport, del lavoro e del dolore. “A malincuore ho dovuto salutare i pazienti dopo quarant’anni – spiega il dottor Bruè –, ma ho cercato di seguirli al meglio che potevo”. Ora più di prima preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno. “Ieri è passato – dice –, domani deve ancora arrivare, pensiamo all’oggi. Affrontiamo il Coronavirus per quello che è, con i piedi per terra. Io ci sono passato, obbediamo alle regole, perché la prevenzione è la migliore cura”.

Quando è uscito dall’istituto di riabilitazione Santo Stefano di Porto Potenza?

“Il 16 luglio, giorno della Madonna del Carmelo. Sono stato coccolato in quella struttura. Quando sono arrivato, non riuscivo a stare né seduto, né in piedi, avevo perso 14 chili di massa muscolare. In pratica, sono stato trasferito da un letto a un altro letto con il sollevatore. Con il piede non riuscivo neanche a sollevare le lenzuola e non riuscivo a scrivere, perché mi tremavano addirittura le mani. Sono uscito dall’ospedale di Civitanova il 19 maggio e ho potuto riabbracciare mia moglie Carla per un minuto; il 3 maggio era stato il suo compleanno e grazie al personale sanitario, le avevo inviato un video con un cartello per farle anche gli auguri”.

Com’è stato il recupero dopo l’incubo della malattia?

“Erano stati previsti tre mesi, invece ce l’ho fatta prima. Mi sono rimesso in piedi grazie al grande lavoro dei medici, degli infermieri, degli operatori sociosanitari e delle terapiste. E grazie anche alla mia costanza e tenacia. Dalla sedia sono passato alla carrozzina, e poi al girello. Una macchina stabilometrica mi ha aiutato per l’equilibrio. Oggi, con la ginnastica della forchetta, ho recuperato sette o otto chili, ma per recuperare fiato e muscoli faccio nuoto e vado in bici con la pedalata assistita”.

Che cosa ricorda del momento più buio e della rinascita?

“Del periodo della rianimazione ho dei vuoti di memoria, ricordo soltanto il dolore di quando sono stato intubato e poi di avere sognato molto. Quando sono tornato a casa, ovviamente, c’è stata una grande commozione, sono stato accolto con una festa. Il mio figlio più grande, ortopedico, mi ha spiegato che quando ero ricoverato il 75% dei polmoni era compromesso. Il miracolo è stato doppio o addirittura triplo: non tanto per me, quanto per non avere contagiato i pazienti, gli anziani della casa di riposo nella quale andavo a fare visita e gli altri familiari. In casa siamo undici, ma soltanto io e mia moglie (in forma più lieve) abbiamo contratto il virus, forse dopo un viaggio ad Abano Terme (Padova). Oggi abbiamo ancora entrambi gli anticorpi: siamo seguiti dalla pneumologia di Macerata per vedere come procede. Siamo stati una sorta di pionieri. Ci mettiamo a disposizione per donare il plasma qualora ci fosse richiesto”.

Si è mai sentito trattato come un untore?

“No, anzi. Tra le cose che mi hanno fatto andare avanti ci sono la fede e la vicinanza delle persone, che hanno tanto pregato per me. Sono state commosse e felici nel rivedermi dopo il brutto periodo. E l’umanità è sicuramente prevalsa sul resto”.

Come vede questa seconda ondata del Coronavirus e che cosa consiglierebbe?

“Se tutti avessimo seguito le norme e usato i dispositivi di protezione, si sarebbe potuta evitare, o comunque ridurre di molto. Due miei ex pazienti, ora fortunatamente dimessi, sono stati portati a Pesaro, perché a Macerata non c’era posto. Sicuramente, adesso ci sono dei farmaci più specifici. Però bisogna affrontare tutti insieme il virus”.

(Il Resto del carlino)

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