14 Dicembre, 2024
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Taglio parlamentari, ha vinto il Sì. Cosa succede ora

 

Dalla prossima legislatura i parlamentari saranno 345 in meno per un risparmio dello 0,005% del debito pubblico. Necessarie la riforma delle legge elettorale e dei regolamenti parlamentari

Taglio dei parlamentari, il Sì al quesito referendario (“Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?”) ha vinto con una percentuale che sfiora il 70%.

La legge costituzionale è stata approvata l’anno scorso, senza tuttavia avere la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascun ramo del Parlamento nella seconda votazione. Questo ha quindi consentito a 71 senatori, pari a oltre un quinto dei membri di quella Camera (7 in più del numero minimo richiesto), di chiedere il referendum popolare a conferma della riforma stessa.

Cosa succederà: parlamentari ridotti da 945 a 600

La composizione del Parlamento cambierà a partire dalla prossima legislatura.

Alla Camera i deputati passeranno dai 630 attuali a 400. Il Senato invece da 315 diventerà a 200 seggi. Saranno ridotti anche i parlamentari eletti dagli italiani all’estero: passeranno da 12 a 8 e i senatori da 6 a 4. Verrà inoltre stabilito un tetto massimo al numero dei senatori a vita nominati dai presidenti della Repubblica: mai più di 5.

L’attuale legislatura, dunque, non è interessata dal provvedimento, ma avrà molto su cui lavorare per consegnare alla prossima gli strumenti idonei. L’esito referendario apre a due modifiche necessarie: la riforma delle legge elettorale e i regolamenti parlamentari.

La riforma della legge elettorale è necessaria, come ha spiegato il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, “per assicurare al meglio la rappresentanza, in un Parlamento a composizione più ridotta, anche alle voci minori, e per garantire rappresentanza e governatività la legge elettorale è elemento essenziale”.

A necessitare di una revisione, poi, sono i regolamenti parlamentari, “perché in particolare il Senato potrà avere difficoltà a far funzionare adeguatamente le 14 commissioni permanenti che ci sono, oltre alle altre commissioni e attività che vengono svolte – spiega Mirabelli – la riduzione di numero può suscitare qualche preoccupazione se si ha presente che alle commissioni parlamentari può essere attribuita anche l’attività legislativa. Può essere non positivo che un numero assai ristretto di senatori decida”.

Ciascun parlamentare avrà più peso e responsabilità,

in particolare quando si tratterà di eleggere figure chiave quali: cinque giudici della Corte costituzionale, un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura, il Capo dello Stato e la votazione per la sua eventuale messa in stato di accusa. La composizione delle commissioni parlamentari verrebbe modificata, in termini numerici, subendo un taglio del 36%. Inoltre anche il processo di revisione costituzionale funzionerebbe con un consenso quantitativamente ridotto.

Non cambierà invece il bicameralismo perfetto o paritario.

Le due Camere continueranno infatti ad esercitare esattamente le stesse funzioni.

I costi legati alla macchina politica e amministrativa, invece, si ridurranno: secondo le stime il risparmio annuo sarebbe di 53 milioni alla Camera e di 29 milioni al Senato ma si tratta di un dato esiguo visto che rappresenta appena intorno allo 0,005% del debito pubblico italiano secondo Pagella Politica.

A quel punto per evitare distorsioni in un Parlamento più piccolo, servirà ricalibrare la legge elettorale in modo da coniugare l’efficacia governativa con la rappresentatività di tutte le aree del Paese, minoranze incluse. Se infatti oggi c’è un deputato ogni 96mila abitanti, con la riforma ce ne sarebbe uno ogni 151mila. Al Senato uno ogni 302mila a fronte di uno ogni 188mila attuale.

Le posizioni dei partiti

Le posizioni nei partiti erano frastagliate: la forza politica compattamente per il Sì (tranne rarissime eccezioni) erano il Movimento 5 stelle, ma a favore erano pure la Lega, ufficialmente così schierata dal suo leader Matteo Salvini (anche se negli ultimi giorni avevano fatto notizia alcuni “no” di peso annunciati dal “numero due” Giancarlo Giorgetti, dall’ex ministro Gian Marco Centinaio, dall’economista Claudio Borghi e dall’ex sottosegretario Armando Siri), e Fratelli d’Italia.

Un caso a parte è quello del Partito democratico, la cui posizione è stata sancita nella direzione del 7 settembre: ha prevalso la linea per il Sì del segretario Nicola Zingaretti, approvata da 188 componenti. Una maggioranza numerosa, ma che non si traduce in una compattezza assoluta. Alcuni esponenti del Pd avevano annunciato l’intenzione di votare No, come l’ex segretario Walter Veltroni, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, l’ex tesoriere Luigi Zanda, Gianni Cuperlo e Matteo Orfini. Contrari anche alcuni big come Romano Prodi, Arturo Parisi, Giuseppe Fioroni e Rosy Bindi. Dentro Forza Italia Silvio Berlusconi ha criticato la riforma, lasciando però libertà di coscienza: in Parlamento, per il Sì figuravano la capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini, e la vicepresidente di Montecitorio, Mara Carfagna, per il No la capogruppo al Senato, Anna Maria Bernini.

Anche in Italia Viva l’ex premier Matteo Renzi, che avrebbe voluto legare il taglio dei parlamentari (presente nella sua riforma del 2016, poi bocciata al referendum) ad altri interventi, non ha schierato il partito lasciando libertà di voto: nettamente contrario è Roberto Giachetti, mentre non hanno mai detto la loro big come Maria Elena Boschi, capogruppo alla Camera, e la capo delegazione al governo Teresa Bellanova. Per il No, infine, sono anche +Europa, Azione (il partito di Carlo Calenda) e Leu.

(Avvenire)

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