16 Aprile, 2024
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Referendum, il riformismo in extremis di Zingaretti

A sette giorni dal voto sul taglio dei parlamentari, il Pd prova a dare un contesto al suo tormentato Sì. Con un disegno di legge articolato che modifica i poteri del parlamento, del governo e del capo dello stato. E recupera un po’ del progetto di Renzi nel 2016

 

Bicameralismo differenziato, sfiducia costruttiva, maggiori poteri al capo del governo. Nicola Zingaretti lo presenta come «un altro passo in avanti e di chiarezza».

 

A sette giorni dal referendum su taglio dei parlamentari, il Pd annuncia la presentazione di un articolato progetto di legge di riforma della Costituzione. Capace di ridisegnare i confini di tutte le istituzioni della Repubblica: parlamento, governo e capo dello stato. Una cattedrale al confronto della piccola riforma sulla quale si vota domenica prossima. Richiederà, se e quando sarà messa all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, un tempo prevedibilmente più lungo di quello che resta alla legislatura. Ma intanto sulla base del comunicato – il testo è in bozze, ci hanno lavorato il presidente della commissione affari costituzionali del senato Parrini, il capogruppo della stessa commissione alla camera Ceccanti e l’ex presidente della camera Violante che ha lanciato il sasso qualche giorno fa su Repubblica – Zingaretti può rivendicare che «il Pd è la forza del cambiamento». Il suo è un tentativo di dare, in extremis, un contesto al taglio dei parlamentari voluto dai 5 Stelle. Per enfatizzare lo sforzo il segretario aveva sposato – nell’ultima direzione – l’idea di Violante di farne una proposta di legge di iniziativa popolare. Scelta accantonata perché inutilmente lunga e costosa: il partito farà presentare il disegno di legge direttamente dai suoi deputati e senatori. La raccolta delle sottoscrizioni è diventata, nelle parole di Zingaretti, «una campagna per raccogliere opinioni, proposte e firme nei circoli, sul web e nelle piazze per migliorare il funzionamento delle istituzioni». Ma tutto questo, ovviamente, dopo il taglio dei parlamentari.

Sono tre le fonti

di ispirazione del disegno di legge costituzionale annunciato ieri. L’idea di Violante, le riflessioni dell’ex giudice della Corte costituzionale Enzo Cheli sulla possibilità che una volta ridotti i numeri le camere possano lavorare più spesso in seduta comune e la riforma costituzionale Renzi-Boschi bocciata dagli italiani nel 2016. L’ultimo riferimento è sfumato al massimo, visto che i 5 Stelle fecero all’epoca la campagna per il No e adesso dovrebbero, in teoria, sostenere questo progetto Pd. La prima reazione dei grillini non è stata di chiusura. «Il Sì serve a inaugurare una stagione di riforme», ha detto la capogruppo in prima commissione alla camera Baldino. I 5 Stelle hanno fin qui sostenuto di essere per riforme costituzionali limitate e puntuali, ma certo non hanno interesse a sbattere la porta in faccia all’alleato che si è faticosamente schierato per il Sì. Non oggi. Negativa la reazione di Italia viva, che prima ha velenosamente sottolineato che si tratta di un «allineamento» del Pd alle proposte di Renzi «di sapore elettorale», poi con il deputato capogruppo in prima commissione Di Maio ha approfittato per invertire le priorità dei democratici: prima bicameralismo e sfiducia costruttiva, poi il sistema di voto. Per il deputato di +Europa Magi, invece, «si sta solo cercando di camuffare il referendum, la vittoria del Sì non comporterà alcun automatismo nella direzione di altre riforme più razionali».

Nelle intenzioni del Pd

le annunciate riforme servono invece proprio ad accompagnare la legge elettorale proporzionale che è stata incardinata, almeno come testo base, nei lavori di commissione alla camera. La sfiducia costruttiva sul modello tedesco servirebbe ad aumentare la stabilità di governo: in effetti l’anno scorso avrebbe reso quasi impossibile il passaggio dal Conte uno al Conte due. La novità ridurrebbe i poteri del presidente della Repubblica, al quale è adesso affidata la verifica dell’esistenza di una diversa maggioranza in parlamento. In aggiunta il presidente del Consiglio si avvicinerebbe al ruolo di premier, con il potere di revocare i ministri oltre che di proporne la nomina.

Il parlamento

in seduta comune diventerebbe una sorta di terza camera, con competenza esclusiva sulle materie delicate: la fiducia iniziale al governo e la sfiducia costruttiva – non è chiaro se anche gli altri voti di fiducia, che vengono chiesti ormai un paio di volte al mese – la legge di bilancio, gli indirizzi al governo prima dei Consigli Ue, i trattati internazionali e le revisioni costituzionali. La parte sulla differenziazione del bicameralismo è quella che porta le tracce della riforma bocciata nel 2016. Allora si prevedeva un senato selezionato dai consigli regionali mentre adesso il senato, ridotto, sta per essere confermato nell’elezione diretta a suffragio universale. Il Pd prevede allora di aggiungere ai 200 senatori eletti dal popolo altri 21 scelti da regioni e province autonome e di specializzare il senato sui temi della legislazione concorrente. Due tentativi di “regionalizzare” la camera alta, che però vengono smentiti dall’altra riforma di “riequilibrio”, già in discussione alla camera, che cancella la base regionale prevista dalla Costituzione per l’elezione dei senatori. In questo modello di bicameralismo differenziato alla camera resterebbe l’ultima parola su tutte le leggi. Ma il senato conserverebbe il potere di richiamo, secondo un iter complicato che quattro anni fa contribuì a impantanare il progetto renziano.

(Il Manifesto)

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