La corda
La morte, chiaramente minacciata dalla corda che restava opaca, minacciosa, silenziosa, con il nodo scorsoio perfetto, annodato da mani esperte abituate non solo a decidere il destino degli altri, ma a stringere lentamente, con piacere, il confine tra possesso e annientamento.
Quel nodo era una presenza che non cercava di convincere: aveva già condannato. Una condanna che sarebbe stata giustificata da un’accusa costruita su qualche pretesto infame, inventato, forse già pronto e che avrebbe significato anche la morte certa dei suoi uomini, fedeli e ignari.
L’abito da sposa
La candela proiettava ombre febbrili sulle pareti. I santi sugli arazzi sembravano chinare il capo, come se volessero distogliere lo sguardo. Il vestito da sposa brillava appena sotto la luce tremolante, ammiccando con la sua bellezza ambigua, come se volesse sedurla, avvolgerla, possederla.
Bianca si alzò dal letto con fatica. Le gambe tremavano, non solo per la droga che le avevano somministrato, ma anche per il peso del pensiero. Si avvicinò al tavolo. Sfiorò il vestito di seta damascata che sembrava emanare luce dai fili preziosi che lo decoravano. Il profumo del tessuto sembrava raccontare storie di felicità. Non resistette alla curiosità di indossarlo. Come se il vestito la chiamasse per nome.
Si tolse gli abiti notturni e fece scorrere sulla pelle nuda, quasi con voluttà, la sottoveste in taffetà di seta avorio, liscia e luminosa come acqua di fonte. Tessuta a Lucca, quella seta portava con sé il respiro delle botteghe toscane e il sussurro delle mani che l’avevano filata.
Sollevò poi con cura la tunica cremisi, ricamata a mano con fili d’oro che si intrecciavano in motivi floreali gotici: tralci di vite, melograni e rose si arrampicavano lungo l’orlo e le maniche, come se la natura stessa volesse abbracciarla e benedirla. Il velluto, tinto con il rosso carminio della cocciniglia e il blu profondo dei lapislazzuli macinati, donava alla stoffa una vibrazione cromatica quasi mistica, come se la luce vi danzasse dentro. Sfiorando le spalle candide, la indossò sopra la sottoveste. La tunica scivolò carezzandole il corpo fino a rasentare il pavimento, con la grazia di un sipario che si apre su una scena onirica.
Quel velluto di seta cremisi, morbido e caldo, certamente proveniente dal lontano Oriente, sembrava respirare, vivo, mentre scendeva lungo il corpo. Le maniche, ampie e svasate, si aprirono come ali di fenice, mentre il broccato, tessuto a telaio con fili metallici dorati all’interno, brillava appena alla luce della candela, come fosse un segreto svelato solo al gesto, come se l’abito stesso fosse vivo e consapevole del corpo che avvolgeva.
Le perle cucite a mano al collo le lambirono la pelle come dita leggere. Tra esse si celava un piccolo granato che pulsava come un cuore antico.
Si sistemò la cintura sottile e rigida, in cuoio dorato intagliato, chiusa da una fibbia cesellata d’argento, stringendola appena sotto il petto. Da essa pendeva un piccolo drappo di seta blu, lunga fino al ginocchio, simbolo di fedeltà e nobiltà, che ondeggiava dolcemente ad ogni suo movimento.
Poggiò poi il mantello damascato, tessuto a Valencia bianco e oro, sulle sue spalle come un manto regale e chiuse la spilla a forma d’aquila con un clic secco, come un sigillo di proprietà.
Raccolse poi lentamente i capelli su un lato che avrebbe intrecciato lateralmente con fili d’oro e seta cremisi, magari lasciando che alcune ciocche sfuggissero libere e ribelli, poggiando la coroncina di alloro in metallo prezioso sul capo, completando il gesto con il velo nuziale: leggero, impalpabile, profumato con essenze rare, forse ambra grigia, rosa damascena o mirra, che avrebbero lasciato una scia olfattiva al suo passaggio, come se la sua presenza fosse destinata a rimanere sospesa nell’aria, anche dopo il silenzio.
La gabbia
Bianca si irrigidì. Al tatto, il morbido tessuto sembrava però gelido, come pelle di serpente appena risvegliata. Non aveva nulla dell’ammaliante seta, cangiante, dolce e delicata, che prometteva alla vista. L’abito sembrava respirare, come se avesse atteso quel corpo per possederlo. Era una menzogna raffinata e lucente, tessuta con mani che non conoscono pietà. Quei sottili fili d’oro che percorrevano il velluto, apparentemente teneri, le davano invece l’impressione di una rete di cuoio e metallo. Una gabbia di finimenti dorati travestiti da carezza. Le sembrava che le si avvolgessero attorno come braccia invisibili, come corde sottili che stringevano con una lentezza voluttuosa. Non ornamento, ma vincolo. Non abito nuziale, ma uniforme per una schiava, oggetto vivente in mani profane pronte ad un rituale di possesso.
Le cuciture seguivano le curve del suo busto con una precisione inquietante, chirurgica. Come se mani invisibili l’avessero misurata nel sonno, tracciando ogni linea del suo corpo con intenzione predatoria. Ora la stringevano, punto per punto, come per possederla per sempre. Il tessuto aderiva come pelle imposta, come se l’abito stesso volesse penetrarla, avvolgerla, assorbirla, come fosse un patto silenzioso, una promessa di sottomissione mascherata da splendore.
Il colletto alto le sfiorava la gola come un collare e le perle, cucite con arte sopra il bordo, sembravano occhi muti che la osservavano, testimoni di un rito che non aveva scelto. Il granato al centro pulsava come un cuore estraneo, un sigillo di proprietà.
Il mantello, pesante e damascato, le gravava sulle spalle come un manto regale rovesciato: non trionfo, ma condanna. La spilla a forma d’aquila, chiusa con un clic secco, le parve un morso, un marchio.
Senza specchi in cui guardarsi, Bianca si guardò nella mente e non vide una sposa. Vide un corpo incatenato in oro, un simulacro di se stessa. Con un gesto netto si tolse quel vestito come se volesse strappare via l’inganno di chi voleva imporglielo. Si tolse ogni strato, ogni cucitura, ogni promessa mai fatta né mai immaginata. Lasciò cadere tutto a terra come si lascia cadere una maschera. Rivestì il suo corpo del bianco vestito da notte, semplice, puro, come una pelle ritrovata. Nel silenzio che seguì, il suo respiro fu il primo atto di ribellione.
Il matrimonio non sarebbe stato un’unione, ma una prigione dorata. Per il conte una conquista mascherata da promessa. Bianca lo sapeva. Non era ingenua, non più. Il matrimonio sarebbe stato solo un’ombra che avrebbe coperto la verità: quel rito avrebbe consegnato il trono a Bernardo, e lei, una volta incoronato re, sarebbe diventata un ostacolo da rimuovere. Non sarebbe servito molto: sarebbe stato sufficiente un’accusa, una voce insinuata nel buio: infedeltà, lussuria, tradimento. Le antiche armi per distruggere l’onore di una donna da sempre legata solo ad una funzione.
Quel matrimonio non sarebbe stato un patto, ma una rapina. Una condanna travestita da cerimonia. Un atto politico inciso sul corpo di una donna, come una ferita che non sanguina ma brucia. Bianca lo sentiva: non sarebbe stata amata, ma spogliata. Non celebrata, ma posseduta e poi gettata via, come un calice svuotato dopo il brindisi del tradimento. Il vestito che avrebbe dovuto raccontare la gioia di chi ama ed è amata, era in realtà una veste sacrificale, cucita per l’offerta e non per la festa. Ogni filo, ogni perla, ogni gesto non erano ornamento, ma vincolo; non promessa, ma condanna; erano parte di un rituale che non le apparteneva.
Dire “sì” avrebbe significato rinunciare a se stessa. Diventare involucro, simulacro, madre di eredi che non sarebbero mai stati suoi, né liberi. Probabilmente sarebbe stata uccisa poco dopo, o peggio: lasciata vivere come simbolo, come corpo utile, come pedina.
Ma Bianca non era nata per essere una pedina. Lei era una regina, al di là del titolo del primo marito. Lo era da quando era stata educata a leggere e comprendere. Nel silenzio, il vestito giaceva ora a terra come una belva ferita a sorpresa proprio quando sembrava avere la meglio. Lei lo guardò con occhi nuovi. Non con paura, ma con lucidità e in quella lucidità, la ribellione cominciò a prendere forma insieme ai pensieri ed ai ricordi che, mano a mano, ritornavano sempre più lucidi.
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Riccardo Agresti


