5 Dicembre, 2025
spot_imgspot_img

Giornale del Lago e della Tuscia edito dall'Associazione no-profit "L'agone Nuovo". Per informazioni su pubblicità e le nostre attività: 339.7904098 redazione@lagone.it

Donnafugata – Tra realtà e fantasia la leggenda di Bianca di Navarra (parte 1 di 7)

Il risveglio nella stanza dei santi

Il silenzio era assoluto, rotto soltanto dal lento e leggero crepitio di una candela poggiata su un candelabro di ferro battuto. La luce tremolante disegnava ombre danzanti sulle pareti rivestite di arazzi sui quali santi, dalle espressioni severe, la scrutavano in un silenzio immobile. I loro occhi sembravano fissarla, impassibili, giudicanti.

Il letto su cui giaceva Bianca era duro, coperto da lenzuola grezze che profumavano vagamente di lavanda, ma erano intrise di umido e di tempo. Il suo corpo era pesante, come se fosse rimasto sepolto nel sonno per giorni. Cercò di sollevare il capo, ma un senso di vertigine la costrinse a richiudere gli occhi. Il cuore batteva lento e svogliato, come se non avesse fretta di tornare alla veglia. La bocca era secca, la lingua ruvida come pietra. Un sapore amaro le risaliva dalla gola. Qualcosa di terroso e pungente, che non apparteneva al vino che ricordava le fosse stato offerto durante il pranzo. Ma… ricordava davvero? Forse quella stanza non era nemmeno mai esistita. Forse era ancora nel sogno Le immagini nella mente erano confuse, come affreschi sbiaditi e screpolati dal tempo.

 

Come era arrivata in quella stanza?

Bianca era nel suo corpo, ma non lo sentiva suo. Come se fosse stata abitata da qualcun altro, anche solo per un istante. Riuscì a mettersi seduta lentamente e osservò la stanza. La grossa candela, ormai quasi consunta, illuminava debolmente l’ambiente immobile e sospeso. Nessuna finestra. Solo una porta appena visibile. Solo i santi, la candela e lei, fragile come un’eco. Il volto di San Girolamo, ricamato in oro, sembrava piegarsi in una smorfia di compassione. O era soltanto l’inganno dell’ombra?

Portò una mano al petto. Il sonno stava svanendo lentamente. Ma qualcosa, dentro di lei, restava avvolto in un torpore profondo. Non riconosceva se fosse giorno o già notte, né quanto tempo fosse trascorso da quel calice di vino che ora le sembrava lontano come un sogno infranto. Le dita tremavano, come se avessero dimenticato il gesto del tocco. Ogni fibra sembrava risvegliarsi da un inverno lungo e ostile.

Si era risvegliata su quel letto, ma non ricordava di esserci mai salita. Su entrambi i polsi, lievi lividi a forma di mezzaluna: impronte silenziose, lasciate da chi l’aveva privata della volontà. Indossava vestiti da notte, ma non ricordava di averli mai indossati, e gli abiti che ricordava di avere avuto addosso durante il pranzo erano svaniti.

Si guardò bene intorno. Alle pareti, gli arazzi coprivano quasi completamente le fredde mura, riproducendo figure di santi in una sorta di processione che percorreva tutte le superfici. Faceva eccezione la parete con l’unica porta, da cui, era chiaro, era stata condotta come un oggetto da custodire o da nascondere, futura proprietà di chi l’aveva ora in possesso e contro cui non aveva alcuna possibilità di difendersi.

 

La sentenza silenziosa

Il silenzio del castello odorava di pietra e ruggine, era appena increspato da lontane voci, non era quiete: era sospensione, era minaccia, era il respiro trattenuto di qualcosa che attendeva nell’ombra. Ma, all’improvviso, un colpo secco, simile al suono del ferro contro la pietra, echeggiò nel corridoio oltre la stanza, facendola trasalire. Bianca si irrigidì. Il suono non era forte, ma aveva in sé qualcosa di definitivo, come un verdetto pronunciato senza appello. Poi, il cigolio lento di una porta che si apriva altrove. Passi. Pesanti. Ritmati. Si avvicinavano.

La porta della stanza si spalancò di colpo, sbattendo contro il muro con un tonfo sordo. Nella cornice apparve un uomo massiccio, armato. Non disse nulla. Si spostò di lato, lasciando entrare una figura minuta, curva, avvolta in un mantello scuro. Era una vecchia serva che avanzò lentamente, con qualcosa di ingombrante, senza sollevare lo sguardo. I suoi passi erano leggeri, ma il silenzio li rendeva solenni, quasi rituali.

Quando fu accanto al tavolo, posò vicino al candelabro, con grande cura, due oggetti: uno splendido abito da sposa, ricamato con fili d’oro e d’argento che scintillavano come promesse vuote, e una corda lunga, ruvida, dal colore spento della terra secca, con un nodo scorsoio perfettamente annodato, teso come una sentenza.

Bianca non riusciva a muoversi. Il cuore le batteva forte. Il corpo restava immobile, come se la scena davanti a lei fosse un sogno troppo vivido per essere interrotto. Un incubo che non aveva bisogno di parole per essere compreso.

La serva si voltò appena e, per un istante, i suoi occhi incrociarono quelli di Bianca. Erano occhi dolci, ma colmi di dolore antico, come se avessero visto secoli di soprusi e non potessero più reagire, nemmeno per piangere. Poi, con un gesto lento e quasi impercettibile, fece scivolare una chiave, piccola, semi arrugginita, in una piega del vestito da sposa. Nessuna parola. Nessun cenno.

Si voltò e uscì, seguita dall’energumeno, che richiuse la porta con un clangore metallico che sembrava chiudere non solo la stanza, ma ogni possibilità.

 

Per leggere la puntata successiva

 

Riccardo Agresti

Ultimi articoli