Per decenni, l’immagine del gatto che beve latte da una ciotola ha popolato cartoni animati, illustrazioni e film. Da Tom & Jerry alle pubblicità del dopoguerra, il felino è stato dipinto come compagno inseparabile del piattino bianco. Una rappresentazione tanto diffusa da trasformarsi in verità culturale, tramandata di generazione in generazione.
La realtà, però, è molto diversa. Dopo lo svezzamento, i gatti perdono gran parte della capacità di digerire il lattosio: l’enzima lattasi diminuisce e il latte vaccino diventa un alimento problematico per i gatti (come per molti umani). Le conseguenze non sono banali: diarrea, dolori addominali, vomito e disidratazione. Ciò che appare come un gesto di cura può trasformarsi in fonte di malessere.
Eppure, molti gatti bevono il latte con piacere. Perché? La risposta sta nel gusto: il latte vaccino contiene grassi e zuccheri che attraggono il palato felino, stimolando la stessa curiosità che li porta ad assaggiare cibi non adatti. Non è un bisogno, ma un piacere sensoriale, che però si scontra con la fisiologia.
Il mito del gatto e del latte è dunque un esempio di come la cultura popolare possa deformare la realtà biologica. Oggi, la divulgazione ha il compito di correggere l’immaginario: il gatto non ha bisogno di latte, ma di acqua fresca e di un’alimentazione equilibrata. Restituire dignità alla verità significa proteggere la salute dei nostri animali, come anche la nostra, e smontare con eleganza un mito che appartiene più alla fantasia che alla vita quotidiana.
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Riccardo Agresti


