È nel cuore dell’adolescenza che si formano le prime relazioni significative, le prime emozioni complesse, le prime ferite invisibili. Eppure a scuola si parla di tutto, ma non di affetto. Non di emozioni. Non di come si ama, si rispetta, si comunica. Non si tratta di parlare di sesso, ma di parlare di sé. Di insegnare ai ragazzi e alle ragazze a riconoscere le proprie emozioni, a rispettare quelle degli altri, a costruire relazioni sane, consapevoli, libere da violenza e pregiudizio. Significa dare linguaggio alle emozioni: imparare a dire “ho paura”, “mi sento escluso”, “sono felice”, “mi sento amato”. Serve a promuovere il rispetto reciproco: capire che ogni relazione, anche quella tra amici, richiede ascolto, confini, cura. Serve a favorire la consapevolezza del corpo e del consenso: insegnare che il corpo è proprio, che il “no” va rispettato, che il desiderio non è mai obbligo.
Nell’adolescenza è il momento in cui si pongono domande su identità, amore, amicizia, desiderio. In cui si formano modelli relazionali che dureranno per tutta la vita. Ignorarlo significa lasciare i giovani soli davanti ai social, ai modelli distorti della cultura dominante; significa permettere che si costruiscano idee sbagliate su sé stessi e sugli altri.
La violenza che vediamo negli adulti spesso nasce da ciò che non è stato educato nei bambini. Viene considerarla normale da chi l’ha vissuta in famiglia, da chi è stato abituato a vederla. Spesso la violenza nasce proprio dalla famiglia, quando non sa affrontare il problema, quando lo ignora, quando lo perpetua. È sciocco e pericoloso pensare di lasciare alla famiglia il compito esclusivo di educare all’affettività, proprio perché quel seme di violenza, se non riconosciuto, cresce e può sfociare nel femminicidio, o più in generale nell’accettazione della violenza sul corpo femminile.
La stessa famiglia che non insegna a bimbi e bimbe che il vestiario è sì un linguaggio, ma un linguaggio indirizzato a qualcuno in modo consapevole, non a chi sta per strada e si arroga il diritto di leggere una provocazione dove non c’è.
La scuola non è solo luogo di istruzione. È spazio di crescita, comunità, laboratorio di cittadinanza. Inserire percorsi di educazione all’affettività significa creare ambienti sicuri dove parlare di emozioni non è debolezza, ma forza; è offrire figure adulte competenti (psicologi, medici) che sappiano ascoltare, guidare, accogliere; è introdurre laboratori, sportelli, attività interdisciplinari che integrino affettività, arte, scienze, filosofia.
L’educazione all’affettività è anche una rivoluzione linguistica. Insegna che dire “ti rispetto” è più importante di dire “ti amo”. Che chiedere “come ti senti?” può cambiare una giornata. Che imparare a nominare il dolore, la gioia, il desiderio, è il primo passo per vivere relazioni vere.
Educare all’affettività nella scuola significa dare ai giovani gli strumenti per diventare adulti capaci di amare, di rispettare, di costruire legami sani. Significa prevenire la violenza, la solitudine, l’incomprensione. Significa credere che l’intelligenza emotiva è tanto importante quanto quella logica.
Perché non c’è vera educazione senza affetto. E non c’è vero futuro senza relazioni consapevoli.
Si ringrazia per la consulenza scientifica la dottoressa Giuliana Schiavone.
Riccardo Agresti


