5 Dicembre, 2025
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Donnafugata – Tra realtà e fantasia la leggenda di Bianca di Navarra (parte 5 di 7)

La scelta

Scelse. Fra le due opzioni che le erano state prospettate simbolicamente, scelse. Era necessaria una terza via. Una via che il conte non si sarebbe potuto aspettare: una fuga. Ma come?

La chiave era lì, fredda e silenziosa. Ma come poteva essere utile per quella porta da cui era stata condotta? Era davvero la possibilità di una via d’uscita, o solo un’illusione ben congegnata? Il castello era sorvegliato, ogni porta presidiata da un guardiano, ogni corridoio abitato da un orecchio pronto a cogliere il minimo sussurro. Fuggire significava rischiare tutto, forse morire e svanire come un’ombra senza nome.

In quel momento, la violenza non era nella corda, né nel vestito. Era nel silenzio. Era persino in quella chiave: un gesto di pietà, sì, ma anche un atto muto, nascosto, come se la libertà non potesse essere concessa, ma dovesse essere rubata con l’ingegno, strappata con il rischio, conquistata nel buio.

 

Presenze invisibili

Chiuse gli occhi. Respirò lentamente. Capì che doveva muoversi in fretta, perché anche il tempo, in quella stanza, non le apparteneva più e, finché la candela bruciava, lei esisteva ancora.

Si domandò cosa fosse davvero quella chiave. Non sembrava affatto adatta ad aprire la porta massiccia che la separava dalla libertà: troppo piccola, troppo vecchia. Eppure, troppo intenzionalmente lasciata per essere ignorata. La vecchia serva era uscita senza proferire parola, e il soldato non doveva essere lontano. Bianca era sola, immersa nella luce tremolante della candela, mentre i fievoli rumori di voci e passi lontani si affievolivano pian piano, fino a svanire. Segno che forse la notte era sopraggiunta. O che il mondo esterno aveva smesso di esistere.

Ma nel silenzio, qualcosa sembrò mutare.

Più il mondo umano si ritraeva, più la stanza sembrava popolarsi di altro. Rumori sottili, profondi, che si udivano solo quando il silenzio diventava assoluto. Mugugni, forse. Lamenti. Come se le pietre stesse respirassero memorie intrise di sangue e silenzio. Presenze invisibili, antiche, tragiche, che sembravano lamentare un’esistenza remota e sfortunata, prendevano forma nel buio per terrorizzarla.

All’improvviso, qualcosa di impercettibile la fece immobilizzare. Un brivido le attraversò la schiena, gelido come un tocco senza carne. come dita d’ombra che reclamano il corpo. La fiamma della candela restava immobile, ma dall’altro lato della stanza notò un arazzo che si era mosso appena. I suoi fili pendenti avevano tremato, come sfiorati da un respiro e quel tremore l’aveva avvolta, come un manto invisibile.

Bianca lo fissò. Presenze oscure? Spiriti venuti a reclamarla, a impedirle di cedere al suo carceriere? O forse, anime perdute che volevano avvertirla, proteggerla, trascinarla via prima che fosse troppo tardi?

 

Il respiro

Fu solo un istante. Poi prese forza e si avvicinò. Non per affrontare, né per carezzare o ammansire lo spirito ignoto e minaccioso, ma per comprendere. Vicino alla parete non notò alcuna presenza sovrumana: la sua mano accarezzò soltanto l’ordito, e rimase dubbiosa, con i fili tra le dita. Poi scostò l’arazzo e guardò la pietra che il disegno nascondeva. La sfiorò: era fredda sotto le dita, umida e gelida come il respiro della notte. Un respiro, appunto.

Poi le parve che una voce sussurrasse da dietro la parete. Lo spirito cercava di invitarla ad attraversarla? La voce non era umana. Non quella di un servo, né di una dama. Era un suono che sembrava provenire da oltre il tempo, dall’oltretomba o da un sogno antico.

Bianca non si mosse. Non tremò. Era sola, sì. Ma non fragile. Chiunque sarebbe rimasto impietrito davanti a quelle presenze misteriose. Non lei. Anche se ora era soltanto una donna che doveva fuggire, non aveva smarrito il carattere e l’intelligenza che le appartenevano fin dalla nascita. Quell’arazzo non nascondeva un mistero ultraterreno, ma la sua salvezza: era la memoria di un passaggio dimenticato, un segreto custodito dalle pietre.

Appoggiò l’orecchio al muro. Lì, tra le pietre, sentì chiaramente qualcosa. Qualcosa di profondo, lugubre, lontano. Non un lamento. Non un pianto. Un soffio da far inorridire, ma vivo. Come incute timore, ma pulsa, la libertà.

Che non fosse rinchiusa in una torre, lo aveva capito subito. Ma ora comprendeva che non era nemmeno sepolta in un sotterraneo. Quella stanza era parte di qualcosa di più grande: un sistema di ambienti, forse gallerie, che serpeggiavano sotto il palazzo come vene sotto la pelle. Ma soprattutto, da qualche parte là intorno, c’era uno sbocco. Un passaggio. Un varco verso la campagna, da cui penetrava quel vento della tempesta che urlava la sua forza impetuosa, ma poi, infilandosi in un probabile dedalo, si riduceva a un soffio sottile, quasi impercettibile, che muoveva appena i fili decorativi dell’arazzo, passando chissà dove attraverso la parete.

I suoni lugubri erano l’eco del vento della tempesta. Quella stessa tempesta che aveva temuto durante il viaggio, osservando le nuvole nere e minacciose. Ora, quella tempesta non era più minaccia. Era alleata. Era occasione. Una tempesta che prima l’aveva spinta fra le braccia del suo nemico, ora le indicava come fuggirne.

 

San Pietro

Bianca rimase immobile, a fissare gli arazzi. Dietro di loro non una porta. Non una finestra. Solo pietra. Solo silenzio. Notò che tutti i santi erano rivolti verso il letto, ma tra la spada di san Paolo e il libro di san Girolamo, le chiavi di san Pietro attirarono la sua attenzione: il vicario di Cristo era l’unico a guardare verso la porta, e le chiavi che stringeva sembravano non solo simboliche, ma indicare una direzione precisa lungo la parete.

Non aveva scelta, se non provare tutte le ipotesi, anche quelle che sfioravano l’assurdo. Non pensò a un segno misterioso del divino, ma a una possibilità più concreta, seppur improbabile: chi aveva disegnato i cartoni preparatori per l’arazzo forse aveva lasciato un messaggio nascosto, inciso nel filo, un’indicazione deliberata, forse un avvertimento, forse una via d’uscita.

Si scostò lentamente, con il cuore che batteva forte, e si mise a osservare la direzione indicata con occhi nuovi, guidata non dalla speranza, ma dalla logica disperata di chi cerca una falla nel disegno del potere. Poi iniziò a esplorare, con le mani tremanti, la fredda superficie dietro gli arazzi.

Le pietre non erano perfettamente allineate. Alcune sporgevano appena, altre sembravano consumate dal tempo in modo innaturale, come se fossero state toccate più volte, come se qualcuno avesse già cercato, o trovato, ciò che lei ora cercava. Un dettaglio la colpì: una piccola fessura verticale, sottile come un taglio, correva lungo il bordo di una lastra più chiara delle altre. Come una cicatrice che il muro non era riuscito a nascondere. Non era una crepa. Era una soglia. Un confine tra il visibile e il celato.

Bianca passò le dita lungo la linea. La pietra era fredda, ma lì, in quel punto, sembrava vibrare sotto la pelle, come se custodisse un respiro antico. Cercò con lo sguardo un incastro, un rilievo, un’anomalia. Trovò una piccola cavità nascosta tra due giunture, appena visibile. Vi infilò le dita. Un lieve scatto. Poi nulla. Ma quando provò, quasi per rabbia, a spingere la parete, sentì un suono sordo, come di pietra che si muove contro pietra. La parete tremò. Lentamente, una sezione del muro si ritirò all’indietro, rivelando una porta dissimulata, perfettamente incastonata tra le irregolarità della muratura. Nessuna serratura visibile. Nessuna maniglia. Solo un’apertura che si stava schiudendo come una bocca silenziosa, pronta a inghiottirla o a liberarla.

Dietro, il buio. Un corridoio stretto, scavato nella roccia, dove l’aria era più fredda e odorava di terra antica, di umidità e di segreti sepolti.

 

 

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Riccardo Agresti

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