Il labirinto
Bianca non arretrò. La ragione le aveva aperto una via e ora il coraggio doveva seguirla. Non esitò. Prese il candelabro, la chiave che la vecchia serva le aveva lasciata di nascosto e si avvicinò alla soglia celata. Prima di varcarla, si voltò un’ultima volta verso la sua prigione. Il vestito da sposa, lasciato a terra, brillava ancora, immobile, ammaliante. Sembrava chiamarla, sussurrarle di indossarlo ancora una volta, ma per Bianca il richiamo del prezioso collare di perle comunicava la stessa promessa della ruvida corda: il mascherato messaggio di morte, fisica in un caso, sociale nell’altro.
Entrò nel passaggio e al primo passo il muro si richiuse alle sue spalle con un sussurro secco, come pietra che trattiene il respiro. Bianca si fermò un istante, il candelabro con la candela tremolante in mano. Il passaggio era stretto, le pareti irregolari e il soffitto sembrava abbassarsi a ogni passo, come se il corridoio volesse piegarla al suo volere, come un servo che si inchina al padrone, costringerla a chinarsi. Il freddo ora le entrava nelle ossa, il respiro si condensava in nuvole sottili, il battito le rimbombava nelle orecchie come tamburi lontani.
Dopo pochi metri, la fiamma della candela, ormai consunta, si spense con un sospiro, come se anche la luce avesse paura di proseguire. Il buio fu assoluto, denso, quasi liquido.
Non si perse d’animo. Da bambina aveva vinto tutte le sfide nei labirinti dove le sue compagne si perdevano ridendo di paura. Ma ora non c’era gioco, né risate. Solo la logica, la memoria, il corpo. Lasciò l’ormai inutile candelabro e appoggiò la mano destra alla parete, quella che, dall’altro lato, era parete della stanza. La regola più semplice e antica per uscire da un labirinto era infatti quella del contatto continuo con una parete: tenere una mano sempre appoggiata alla stessa parete mentre si procede.
Il contatto diretto dei piedi nudi con il suolo le dava inoltre una mappa invisibile: il pavimento cambiava consistenza: a tratti secco e polveroso come cenere, più all’interno del castello, altre volte umido e viscido come muschio, nei pressi del fossato che lo circondava. Camminava con attenzione, ma decisione, nel buio pesto di quel dedalo di stanze e corridoi e ogni svolta era una ferita nel buio, una scelta cieca ma non innocente: seguiva il filo della ragione, la geometria del muro che doveva portarla, prima o poi, all’apertura da cui era entrato quel soffio che non era spirito immateriale, ma l’alito della tempesta scoppiata al suo arrivo nel castello di Bernardo.
Ora il silenzio era totale. Forse la tempesta si era placata perché aveva raggiunto il suo scopo: non punirla, ma guidarla, ora pentita, forse, di averla costretta a mettersi nelle grinfie del conte. Nessun rumore, nessuna eco. Solo il suo respiro e il battito del suo cuore. Ma il muro era ora il suo filo di Arianna, tracciato dalla sua volontà di sopravvivere.
Un alito
Camminò a lungo, senza sapere quanto tempo fosse passato. Fortunatamente gli ambienti, cunicoli, corridoi, spazi più o meno ampi, non avevano offerto intralci al suo cammino. Poi, dopo un tempo indefinibile, qualcosa cambiò.
Un soffio. Un alito d’aria le sfiorò la guancia. Il vento, che era rimasto immobile fino ad allora, tornava a muoversi, a respirare e a farla respirare. Bianca accelerò il passo. L’aria portava con sé l’odore umido della notte, come un messaggio sussurrato dalla terra.
Infine, un chiarore. Debole, argenteo. La luna, liberata dalle nuvole della tempesta, filtrava in fondo al lungo corridoio. La galleria terminava in una cavità semi illuminata, dove il suolo era sommerso da pochi centimetri d’acqua, gelida e immobile. Davanti a lei, una grata possente, incastonata nella roccia. Oltre la grata, un laghetto silenzioso, incorniciato da pareti di pietra e alberi contorti. La superficie rifletteva la luna piena come uno specchio antico.
Bianca si avvicinò alla grata. L’acqua le lambiva le caviglie, gelida come un avvertimento. Nessuna serratura visibile, nessun meccanismo apparente. Solo ferro e pietra. Si chinò, le dita esplorarono i bordi, cercando un segno, un’apertura, una promessa. Nulla.
Poi, l’intuizione: la serratura doveva essere all’esterno e lì, nascosta tra le incrostazioni di ferro, la trovò. Ma come aprirla? Un lampo nella mente. Nell’altra mano, quasi dimenticata, stringeva ancora con forza la chiave presa fra le pieghe del vestito da sposa. L’aveva tenuta sempre stretta, senza accorgersene, dopo aver abbandonato l’ormai inutile candeliere. Come se le sue dita avessero saputo, prima della sua coscienza, che quella chiave sarebbe servita.
Che fosse quella la chiave giusta? Provò. Il meccanismo opponeva resistenza. Si sforzò. Il metallo sembrava rifiutarla, come se il castello stesso volesse trattenerla. Ma poi, un colpo secco. Per un istante temette di aver spezzato la chiave. Invece, aveva spezzato la prigionia.
La fuga non era finita. Ma la luna, ora, era dalla sua parte, come un’antica alleata, e avrebbe vegliato con la luce argentea sul suo cammino.
L’acqua si fece presto profonda. Bianca strappò via le parti delle vesti da notte che le impedivano di muoversi nelle acque e si immerse, nuotando con bracciate silenziose, come un’ombra che scivola tra le pieghe del mondo. Il chiarore lunare, che tremolava sulla superficie, che le indicava il bordo da raggiungere.
Raggiunse la riva, si sollevò grondante sui sassi del bordo, come un’apparizione strappata all’acqua, lentamente per cercare di fare meno rumore possibile e si voltò a guardare il castello. Lì, dietro quelle mura, i suoi uomini dormivano ancora ignari. E lei, ora, era un segreto che camminava nella notte.
Catturata?
All’improvviso, un braccio comparso dal nulla, la strinse con forza, immobilizzandola. Una mano le chiuse la bocca. Una voce bassa sussurrò: «Madonna, per carità, non urlate. Perdonate il mio ardire: sono un uomo della vostra scorta.». Bianca annuì, con gli occhi spalancati, il cuore in tumulto.
L’incredibile stava accadendo. Le braccia sciolsero il vincolo che l’aveva immobilizzata, lasciando spazio alla salvezza.
Il soldato continuò a voce bassa, concitata. Le raccontò di alcuni servi che l’avevano amata fin dal suo arrivo in Sicilia. Avevano scoperto le intenzioni del conte e, rischiando tutto, avevano rivelato alla scorta il punto esatto da cui lei sarebbe potuta fuggire, se solo avesse saputo decifrare il linguaggio nascosto delle ombre,
I suoi compagni avevano allora fatto finta di nulla e avevano mascherato la sua assenza. Ora, sul suo giaciglio, giaceva una sagoma di paglia, nascosta sotto una coperta pesante, da cui emanava un forte odore di vino pungente, pronto a ingannare chiunque si fosse avvicinato simulando la presenza di un’anima dissolta nel vino.
Lui era stato scelto per aiutarla, ma aveva temuto per lei. Temuto che l’attesa si sarebbe prolungata nel nulla, che il silenzio avrebbe preso il posto della speranza. Sapeva che era stata drogata, ma ignorava in che condizioni l’avrebbe ritrovata. Aveva immaginato il peggio. Aveva temuto di trovarla spezzata o perduta.
Aveva rischiato la vita per lei e lo avrebbe rifatto altre mille volte, senza esitazione, senza rimpianto. Perché in quel gesto, in quella missione, c’era qualcosa di più grande della paura: c’era la fedeltà e forse qualcos’altro di non rivelabile.
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Riccardo Agresti


