C’è ancora la crisi climatica? A sentire i notiziari e a leggere i giornali sembrerebbe di no. Sono altre le notizie di cui si parla sui social e che catturano l’attenzione dei decisori e della pubblica opinione, più che mai dopo il secondo insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Che il 2024 sia stato l’anno più caldo, con un incremento su scala globale che ha superato i +1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale ( https://climate.copernicus.eu/global-climate-highlights-2024 ) – soglia al di sopra della quale è molto complicato arginare gli impatti – è notizia poco o nulla presente. Così come il fatto che in questa crisi l’Europa è sensibilmente più esposta, con un incremento che si avvicina a +3°C e con marzo 2025 che risulta il marzo più caldo mai registrato nel vecchio continente.
Per chi si occupa di ambiente e di clima tutto ciò provoca sconcerto, frustrazione, irritazione; e pure ansia e angoscia, come già qualche anno fa veniva riportato in un articolo dell’autorevole rivista scientifica Nature (Nature Climate Change, 2022, 12, 773 – 774). Ci si chiede come sia possibile che un tema di tale rilevanza – più di qualcuno tra quelli che a vario titolo se ne occupano seriamente afferma che dovrebbe essere in cima all’agenda dei decisori – sia così sottovalutato, ignorato, addirittura negato, spesso con accenti derisori, in spregio alla migliore conoscenza scientifica. Per non parlare dei ricercatori USA che vengono licenziati. Certo da parte delle lobby dei combustibili fossili ci sono interessi colossali, da numerosi decenni gestiti in modo diabolicamente magistrale, con una capillare disinformazione su media e social farcita di astute considerazioni pseudo-scientifiche; senza contare le pressioni, riccamente oliate a suon di milioni e miliardi di dollari, nelle diverse sedi politiche e istituzionali nazionali e sovranazionali. Epperò tutto questo, secondo me, non spiega compiutamente il diffuso disinteresse, se non addirittura l’insofferenza e il fastidio, nei confronti della crisi climatica da parte di tanta opinione pubblica e dei decisori. C’è dell’altro, e quest’altro è collegato, a mio parere, da una parte alle modalità con cui la crisi climatica si dispiega, e dall’altra al modo con cui noi percepiamo, elaboriamo, conosciamo e, alla fine, agiamo. Parlo dell’individuo “medio” (con tutte le approssimazioni del caso), non certo di chi ha competenze o sensibilità specifiche.
I tempi del clima naturale sono plurisecolari, plurimillenari e oltre. Quelli dell’essere umano si misurano in anni, mesi, giorni. Per “clima naturale” intendo quello senza forzanti umane, per com’è stato grosso modo fino all’inizio dell’era industriale. Non è più così, negli ultimi decenni il cambiamento climatico ha avuto una accelerazione quale mai si è vista prima nella storia del nostro pianeta; ma i tempi sono comunque diversi da quelli propri dell’essere umano: “Per la Terra, cent’anni equivalgono a un attimo: se un processo che prima avveniva in milioni di anni ora avviene in cento, la velocità può essere paragonata a quella di un’esplosione.” (A. S. Magnason, Il tempo e l’acqua, 2020, pag.81). Questo sgombra il campo da affermazioni farlocche quali: “Non esiste nessuna crisi climatica, il clima è sempre cambiato”, e simili. Se è vero che i cambiamenti climatici – come l’alternarsi di glaciazioni e periodi caldi – ci sono sempre stati, questi in passato si sono dispiegati su tempi dell’ordine delle migliaia, decine di migliaia e centinaia di migliaia d’anni, dando tutto l’agio agli umani e agli altri organismi viventi di adattarsi. Il cambiamento che stiamo attraversando è estremamente più rapido, ed è asseverato – anche con l’assegnazione di due premi Nobel nel 2022 – che la velocità di cambiamento attuale si spiega solo con la rapidità con cui l’umanità emette gas a effetto serra, soprattutto tramite la combustione di petrolio, carbone e gas naturale.
Comunque nonostante questa enorme accelerazione dei cambiamenti climatici, vi è sproporzione tra tempi ed entità della crisi climatica, e i nostri tempi e le nostre percezioni, e di conseguenza le nostre reazioni. Per quanto i mutamenti si susseguono nel corso dei decenni a velocità crescente, noi facciamo fatica a concepirli nella loro reale entità, sia perché avvengono lentamente rispetto alla nostra percezione, sia perché una realtà, quando è molto sgradevole, è difficile da accettare e si tende a non vederla, a minimizzarla o addirittura a negarla. Così capita che, in presenza di giornate autunnali o primaverili eccezionalmente calde, vanno in onda nei notiziari servizi con interviste di vacanzieri in spiaggia che esprimono tutta la loro soddisfazione per poter fare una giornata di mare “come in piena estate”; già, perché il mare è sempre più caldo, e questo significa una enorme quantità di energia in eccesso accumulata nelle sue acque, con conseguente maggiore possibilità di innesco di trombe marine, cicloni e via discorrendo. Senza contare che mari più caldi significa acque più povere di ossigeno, e che l’anidride carbonica disciolta ne aumenta l’acidità: non sono belle notizie per le specie marine, molte delle quali versano in estrema sofferenza. E tanto per parlare di casa nostra, il Mediterraneo è un hot spot climatico, con aumenti di temperatura degli strati superficiali dell’acqua di +3 °C con punte in alcune zone di +5 °C la scorsa estate. Ma questo sembra non contare, a fronte della soddisfazione manifestata dai bagnanti “fuori stagione”, e ci si guarda bene dal dire che il ripristino nei mari della situazione pre-crisi climatica, se ipoteticamente si volesse realmente porre rimedio riducendo drasticamente le emissioni globali dei gas serra (cosa del tutto impensabile al momento), impiegherebbe secoli. Perché – lo ripeto – i tempi della Terra non sono i nostri. Così accade che, distratti da tante emergenze, la crisi climatica passa nel dimenticatoio, quando non viene vista addirittura come un elemento disturbante se non dannoso: si pensi alla battuta di Trump “Drill baby drill”, o alle aspre critiche all’interno dell’Unione Europea al Green Deal, oramai in fase di rottamazione. Tanto i super-ricchi se la caveranno colonizzando il cosmo, tutti gli altri si arrangino! Quanto all’Italia, di attuare serie politiche di adattamento ai cambiamenti climatici neanche a parlarne: basta rendere obbligatoria per le imprese l’assicurazione contro gli “eventi catastrofali”, e il gioco è fatto.
Quando penso alla crisi climatica in cui ci siamo cacciati, sovente mi viene in mente la storia della rana bollita. La riassumo per chi non la conoscesse: in un pentolone pieno d’acqua fredda una rana nuota tranquillamente. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano; diventa tiepida, e la rana la trova piuttosto gradevole. Col passare del tempo la temperatura sale, la rana apprezza questo calore. Dopo un po’ però inizia a stancarsi, ma non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda e la rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire; allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce bollita.
Finiremo come la rana bollita? Gli accordi di Parigi del 2015, di cui tanto si è parlato, sono di limitare per fine secolo l’incremento globale di temperatura al di sotto dei 2 °C e possibilmente di non superare 1,5 °C. Questa seconda soglia è già oggi disattesa, anche se per asseverarlo i climatologi devono considerare un congruo numero di anni. Peraltro i processi in atto a livello geopolitico indicano una tendenza all’accelerazione piuttosto che al contenimento dell’effetto serra: si è più interessati alle opportunità commerciali che la sparizione dei ghiacci dà alle rotte artiche, piuttosto che alla decarbonizzazione.
Penso che quando gli effetti del riscaldamento si faranno insopportabili sarà gioco forza ricorrere alla cosiddetta geoingegneria climatica, ad esempio spargendo aerosol nell’alta atmosfera per schermare la terra di parte della radiazione solare, col fine di compensare il riscaldamento indotto dai gas serra; tutto ciò con possibili “effetti collaterali indesiderati” molto probabili e potenzialmente destabilizzanti dal punto di vista geopolitico. Insomma ci aspettano “tempi interessanti” (Che tu possa vivere in tempi interessanti è un’antica maledizione cinese), e può darsi che finiremo come la rana bollita. Ma non è detto. La storia insegna una sola, grande certezza: che non esistono certezze. La scomparsa di Papa Francesco, grande difensore degli ultimi e della casa comune, introduce un ulteriore elemento di complessità in un quadro non semplice, con un conclave che, grazie alle nomine cardinalizie di Bergoglio, è per la prima volta nella storia veramente cattolico cioè universale, globale. La presidenza Trump sta facendo uno stress test negli USA, in Europa e nel mondo, e – paradossalmente – potrebbe non essere un male. Gli statunitensi devono decidere se accettare una restrizione delle loro libertà democratiche e dei loro diritti, oppure difenderli. In Europa è necessario capire verso quale orizzonte politico, economico e sociale l’Unione deve dirigersi con decisione, e lo stesso discorso vale per l’Italia. Parlo di orizzonte perché è necessaria, anzi indispensabile, una vista molto lunga per governare le sfide che abbiamo di fronte, prima fra tutte quella climatica visto che – oramai è certo – il cambiamento climatico renderà il nostro mondo molto, molto più complicato. E i tempi del clima vanno ben oltre quelli di un essere umano: dunque, considerato che sul clima ci abbiamo messo pesantemente le mani, cerchiamo – almeno – di essere consapevoli di cosa stiamo manovrando.
Certo al momento non è un bel vedere né in Italia né in Europa, né a destra né a sinistra, ma non è da escludere che lo stress test trumpiano disveli energie positive “dormienti” nel vecchio continente – e, spero, anche negli USA. Ancora una volta non sappiamo come andrà a finire, è una partita aperta e, ora più che mai, tutti e ciascuno devono fare la propria parte: rovesciando un motto di Giulio Andreotti, adesso non c’è spazio per “tirare a campare”.
Mario Carmelo Cirillo