27 Aprile, 2024
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Dalla rivolta dei Ciompi all’alienazione dell’uomo moderno

Per gentile concessione – Se la rivoluzione doveva essere fatta dagli operai allora qualcosa non ha funzionato.

Dalla pubblicazione nel 1848 del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx ad oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, il mutamento della società è stato netto sotto ogni punto di vista, ma lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non è di certo concluso.

Se per tutto il novecento si è pensato alla classe operai come l’avanguardia rivoluzionaria, come il bacino di voti di tutta la sinistra, dalla più radicale alla più moderata, adesso negli anni segnati dalla new economy, dal neo liberismo, dalla diffusione delle tecnologie e dei social media e della globalizzazione le cose sono assai cambiate, e forse la rivoluzione non è più appannaggio della sola classe operaia.

Intendere la Storia esclusivamente come lotta di classe potrebbe forse apparire eccessivo, ma se un elemento di discontinuità esiste nello scorrere del tempo, tra passato presente e futuro, questo è sicuramente rappresentato dalle rivoluzioni, di qualsiasi matrice esse siano.

Le rivoluzioni rappresentato una forte separazione con il passato, creando dei nuovi equilibri; pensiamo ad esempio alla rivoluzione francese e a quella russa, le quali hanno influenzato non solo i propri confini ed i propri cittadini, ma l’intera Europa sul finire del 700 e tutto il mondo per gran parte del 900.

Se le rivoluzioni sono spesso confuse e disordinate e spesso diverse fra di loro, hanno però un elemento che le caratterizza e le accomuna: la coscienza di classe.

Ogni motore rivoluzionario viene messo in moto da una specifica classe sociale che è conscia di essere diversa da tutto il resto ed ha maturato degli obbiettivi e degli interessi comuni, i quali ormai sono saturi e pronti ad esplodere.

Se oggi di rivoluzione non si parla più o è vista come un opzione utopica ed irrealistica, non è di certo perché la storia ha voluto mettere da parte la lotta di classe, ma perché viviamo in una fase storica complessa, dove la società continua ad essere fortemente classista, ma dove le classi subalterne si confondono sempre di più perdendo la loro coscienza.

Se siamo intenzionati a comprendere in che modo è avvenuto tale processo di mutamento e come le classi proletarie (e anche borghesi) abbiano perso quel ruolo di avanguardia rivoluzionaria, è interessante prendere in esempio alcuni casi di rivoluzioni, spesso mancante, che nel corso della storia sono state delle importati novità e con le quali si può fare un cauto paragone con moti di protesta contemporanei.

Il punto da cui possiamo far partire la nostra analisi è un evento che spesso viene pensato e ricercato come il vero primo tentativo di rivoluzione nella storia.

Non dobbiamo pensare ai moti ottocenteschi, alle idee borghesi liberali e democratiche e neanche ai vari socialismi: dobbiamo fare un salto ancora più indietro e proiettarci nel Medioevo, nella Firenze del 1300.

Stiamo parlando della rivolta dei Ciompi del 1376. Non è di certo la prima ribellione che avviene nel medioevo (ricordiamolo sempre come un periodo molto lungo, complesso e non uniforme) e numerose ce ne erano state nell’età antica, ciò che cambia questa volta però è il contesto: la Firenze in cui ci troviamo è una delle città più avanzate d’Europa, una vera e propria città industriale: non dobbiamo di certo immaginarci grandi capannoni o operai con le tute blu, ma un’industria esiste, con imprenditori che comprano lana grezza all’ingrosso e pagano e coordinano una serie di lavoratori-operai, che a domicilio producono il tessuto finito.

Vediamo dunque come si delineano gli elementi fondamentali che possiamo ritrovare anche nelle rivoluzioni molto più moderne: un’industria, gli industriali e gli operai, ovvero delle classi contrapposte. Ma soprattuto è presente una consapevolezza in quella società, che è assente in quella attuale, che vede l’uomo realizzato all’interno di organizzazioni, non solo in abito politico, ma anche economico e religioso.

Nella Firenze del 1300 sono ben strutturate e diffuse le organizzazioni dei mestieri, delle forme di associazionismo fra i vari imprenditori, dai grandi commercianti fino ai piccoli negozianti.

Il collante fra gli operai e gli imprenditori delle organizzazioni è la nascita spontanea di una coscienza che viene chiamata “di popolo”, che vede uniti tutti i lavoratori (dai grandi commercianti, passando per i bottegai fino agli operai) contro i nobili nullafacenti e abituati a detenere il potere, il quale passa gradualmente nelle mani del “popolo”, ma a rimanere esclusi sono però i lavoratori di più basso rango, gli stipendiati dai padroni, i quali all’interno di Firenze sono però la minoranza (ciò sarà un problema che si ripresenterà sempre nella storia delle rivoluzioni di stampo socialista, dove il proletariato non è mai in maggioranza numerica ma deve fare i conti con una serie di altre classi lavoratrici come la piccola e media borghesia).

In questo contesto la rivolta dei Ciompi è la rivolta di quella parte di popolazione che era esclusa dalla rappresentanza politica, che rivendica il diritto di “organizzarsi in sindacati” (il sindacato è un organizzazione esclusivamente contemporanea, l’anacronismo è voluto per rendere l’idea di ciò di cui si sta trattando in maniera semplificata).

La rivolta dei Ciompi, per quanto si sia conclusa con un aspro fallimento, ci mostra però una società matura, articolata in classi con una loro distinzione e delle loro coscienze spesso in opposizione: abbiamo visto tutto il popolo, ovvero tutti i lavoratori, contro la nobiltà e sul finire gli sfruttati e i piccoli bottegai contro gli industriali. Forse un timido accenno di lotta di classe.

Il tumulto dei ciompi di Giuseppe Lorenzo Gatteri
Il tumulto dei ciompi di Giuseppe Lorenzo Gatteri

Sfruttati e sfruttatori sono due concetti che ritroviamo in tutta la storia dell’uomo, che forse però trovano la loro più concreta ed alienante realizzazione al termine di quella che viene definita prima rivoluzione industriale, che possiamo collocare nel XVIII secolo e dunque con la formazione della prima classe operaia.

Si potrebbe controbattere a questa mia affermazione sottolineando che condizioni di sfruttamento altrettanto dure, se non di più, si possono riscontrare nelle schiavitù dei popoli dell’antichità, come Romani e Greci, o anche nelle condizioni di vita delle campagne nel medioevo.

Nell’antichità lo sfruttamento degli schiavi erano sicuramente brutale, ma numerosi furono i casi in cui essi ebbero possibilità di riscatto personale: pensiamo ad esempio al caso di Ulisse e del suo schiavo Eumeo, modello che indica la benevolenza di un padrone intelligente. In tutto il mondo ellenistico era infatti diffusa l’idea che trattare bene i propri schiavi convenisse agli interessi dello stesso padrone, citiamo Senofonte che nel suo Economico scrive : “Gli schiavi cercano di scappare spesso se sono incatenati, mentre se sono sciolti lavorano di buon grado e non fuggono”, oppure Eschilo che nel suo Agamennone fa dire a un nobile “È vantaggioso avere padroni altolocati. Chi fa fortuna improvvisamente è più crudele del dovuto con i suoi schiavi. Da noi ti puoi aspettare ciò che è stabilito dalla norma”. Si parla appunto di norma, era dunque consuetudine avere rispetto per i propri schiavi.

Più dura sicuramente fu la condizione degli schiavi a Roma, dove però la legislazione romana fu tuttavia la prima a contemplare la possibilità di restituire allo schiavo la dignità di uomo libero. La restituzione della libertà attraverso l’istituto della manumissione, molto diffuso soprattutto tra le famiglie patrizie, permise ai liberti (tale era il nome degli ex schiavi) di assurgere talvolta a ruoli di notevole importanza, come accadde a Tirone, segretario di Marco Tullio Cicerone, o al commediografo Terenzio.

Per quanto riguarda il medioevo l’argomento è sicuramente assai più complesso perché parliamo di un’epoca storica molto estesa e disomogenea, la quale mette in atto le sue riprese in tutta l’Europa, dunque con caratteristiche spesso diverse da regione a regione, ma possiamo comunque affermare che nell’informazione odierna sono numerosi i falsi miti secondo i quali le campagne contadine sarebbero state caratterizzate da una sfruttata servitù della gleba.

Si osservavano invece spesso contadini liberi ed importante fu poi il ruolo della Chiesa Cattolica, che ebbe l’obbiettivo di trasformare lo schiavo in servo e, quando possibile, in uomo completamente libero, tant’è che nell’Europa medievale Cristiana la schiavitù cessò gradualmente di esistere.

È invece con la prima rivoluzione industriale, dunque con la nascita delle fabbriche e delle industrie come le intendiamo noi oggi, che inizia lo sfruttamento non più di un singolo individuo per delle ragioni ben precise (come ad esempio la cattura dopo una battaglia persa come poteva essere per uno schiavo), ma lo sfruttamento e la vessazione di un’intera classe sociale: il proletariato.

Se la campagna medievale era caratterizzata da una vicinanza tra il padrone e i contadini, uniti da un giuramento di fedeltà reciproca, la fabbrica crea un distacco insanabile fra l’operaio e il padrone.

Si creano dei veri e propri ghetti, dei quartieri operai dove il proletariato è confinato e non entra mai in contatto con quella che è la nuova classe protagonista dell’età contemporanea: la borghesia.

Quella divisione tra lavoratori, imprenditori e nobili che abbiamo visto nella Firenze della rivolta dei Ciompi, trova la sua massima evoluzione e compimento dopo la prima rivoluzione industriale e in tutto l’Ottocento.

La borghesia è nel XIX secolo del tutto inarrestabile da un punto di vista economico, e le sue istanze politiche dopo la rivoluzione francese sono ormai un dato di fatto: si dimostra una classe unita, pronta ormai a diventare la protagonista della storia.

A cementificare la propria unione di classe sono anche i lavoratori.

Il proletariato è infatti, come abbiamo già detto, segregato nei così detti quartieri operai, dove però i singoli lavoratori hanno la possibilità di incontrarsi e con il tempo organizzarsi per creare le prime forme di associazionismo operaio.

Nascono le prime associazioni di muto soccorso, e nel 1853 troviamo una primordiale forma di sindacato: le Trade Unions.

Per tutto l’800 si diffonderanno quelli che Marx, nel suo Manifesto del Partito Comunista, definirà socialisti utopisti, come ad esempio Robert Owen, Saint-Simon, Blanqui o Proudhon, ovvero coloro che erano riusciti a comprendere i problemi della nuova società ma senza riuscire a trovare una giusta soluzione ad essi, che per Marx era la Rivoluzione proletaria.

Nel XIX secolo le rivendicazioni operaie e di quella corrente politica che ormai possiamo definire socialista furono ancora incerte e acerbe, soprattutto difronte alle lotte borghesi nazionali e patriottiche che furono le assolute protagoniste (pensiamo ovviamente ai moti dei bienni 20-21, 30-31 e 48-49).

Territorio di fecondi esperimenti politici è sicuramente la Francia che vede alla fine del 700 lo scoppio della rivoluzione che passa, in tutte le sue fasi, da un estremismo all’altro, e sarà poi dominata nel corso di quasi tutto l’ottocento da un fenomeno politico che è ancora di strettissima attualità e che ha riguardato anche da molto vicino il nostro paese, ovvero il bonapartismo, ossia la via d’uscita intermedia, interclassista in un momento in cui nessuno dei ceti sociali in lotta riesce a prevalere.

Ma l’esperimento forse più eclatante che vide la Francia, ma soprattuto Parigi, protagonista fu la Comune del 1871, ovvero il primo esperimento di governo socialista: un progetto che vedeva l’abrogazione del centralismo statale e la creazione di una grande comunità di comuni autogestiti, dunque una visione particolarmente avveniristica e in termini di realpolitik molto utopista, che giunge al fallimento poiché non riesce a diffondersi nel resto della Francia, in particolar modo nelle campagne, che fin dai tempi della presa della Bastiglia si sono spesso mostrate con caratteristiche sociali e politiche assai reazionarie.

Parigi rimase così per un breve lasso di tempo una sorta di Poleis, che vide una serie di riforme per l’epoca, ma anche e soprattuto per i nostri tempi, particolarmente innovative, come ad esempio l’abolizione di un esercito regolare, un salario unico per qualsiasi funzione, abolizione delle così dette multe sul lavoro, confisca delle fabbriche abbandonate, istruzione gratuita e laica.

Nel 900 le rivendicazioni socialiste e la lotta di classe che vedono come protagonista la classe proletaria sono ormai mature.

La complessa articolazione che vede tutte la sfaccettature della sinistra, dal comunismo marxista, all’anarchismo bakuninano fino ai moderati socialdemocratici, sembra matura e vedrà la sua totale o parziale completezza in numerosi eventi della prima e della seconda metà del 900.

Il perpetuarsi e l’amplificarsi dei nazionalismi in tutta Europa e il conseguente scoppio della prima guerra mondiale porteranno in Russia le condizioni necessarie per lo scoppio della rivoluzione socialista che segnerà un’intera epoca, un intero paese, ed ispirerà numerosi popoli e leadership e che sarà determinante per le vicende internazionali del resto del XX secolo: la rivoluzione d’ottobre del 1917 (preceduta dalla rivoluzione di febbraio).

La realizzazione di un totale sovvertimento dello status quo, la cacciata e la messa a morte della famiglia zarista e l’effettivo controllo del potere nelle mani di una dirigenza comunista getta su tutta l’Europa, anzi su tutto il mondo, un senso di smarrimento e di paura.

Il timore di una rivoluzione estesa porta i governi degli stati europei a stringere per una repentina chiusura della guerra e ad affidarsi ai gruppi politici e paramilitari di estrema destra per reprimere rivolte, scioperi ed occupazioni.

Nonostante questa enorme vittoria le forme di socialismo e comunismo si dimostrarono ancora disunite e in conflitto fra di loro, e ciò porterà la sinistra a mancare degli appuntamenti cruciali per la sua storia: pensiamo ad esempio al fallimentare biennio rosso italiano, alla mancanza di unione delle forze repubblicane in Spagna, alla cruciale lotta intestina all’Unione Sovietica che determina i mesi dopo la morte di Lenin fra Stalin e Trotzkij (che continuerà per tutto il 900 fra trotzkisti e stalinisti in senso più ampio ed ideologico), e la mancata unione delle forze socialiste italiane in una forte opposizione al fascismo.

Fragile fu l’unione creata durante la terza internazionale, il Comintern, dove la linea dettata da Stalin fu quella di fare fronte comune contro le forze reazionarie con la creazione dei cosiddetti “Fronti Popolari”, che videro la loro realizzazione in Spagna e in Francia, ma entrambe queste liste elettorali che vedevano l’unione di quasi tutte le forze di sinistra, dai socialdemocratici ai comunisti, ebbero vita molto breve.

In Francia il governo cadde velocemente, in Spagna fu la guerra civile ad annientare le forze di sinistra, che nel conflitto dimostrarono tutta la loro incapacità d’unione, arrivando addirittura a combattere fra di loro.

La presa del Palazzo d'Inverno nel film Ottobre di Sergej Ėjzenštejn (1928)
La presa del Palazzo d’Inverno nel film Ottobre di Sergej Ėjzenštejn (1928)
giovane soldato del Partito Poum durante la Guerra Civile Spagnola
giovane soldato del Partito Poum durante la Guerra Civile Spagnola

In Italia conosciamo bene come andarono i fatti: ovvero il totale crollo e disfacimento delle forze socialiste che videro il loro tracollo nel fallimentare biennio rosso ed in una sterile ed inutile opposizione reale al fascismo.

Durante il ventennio mussoliniano l’ultimo baluardo di resistenza rossa fu preso in mano dal neonato Partito Comunista d’Italia, formatosi durante la celebre scissione di Livorno nel 1921. Grazie alla sua forza organizzativa il partito di Togliatti e Gramsci divenne l’unico vero baluardo di opposizione clandestina alla dittatura, dimostrando successivamente la sua forza durante tutte le fasi della resistenza e della lotta partigiana.

Fu proprio con quest’ultima che le forze progressiste ritrovarono un ampio consenso fra la popolazione, ed in generale in tutta l’Europa in cui si combatteva l’occupante nazista ci fu un risveglio della speranza nella lotta di classe e il riapparire di una possibile rivoluzione proletaria. La coscienza di classe -mai scomparsa ma solo sommersa dalle dittature fasciste- tornò a rianimarsi.

Sappiamo bene però come, sia in Italia che nel resto d’Europa, le rivoluzioni non avvennero mai, tranne quelle che potremmo definire “dall’alto” dettate dal Cremlino ad est del vecchio continente.

Calò in Europa -e sul resto del mondo- la cortina di ferro, sconfessando anche le più calde volontà rivoluzionarie, ma senza mai eliminare le tensioni.

In Italia non possiamo poi non citare la celebre “svolta di Salerno”, ovvero la volontà da parte di Palmiro Togliatti (su iniziativa dell’Unione Sovietica) di trovare un accordo con le altre forze di resistenza antifasciste al fine di promuovere un governo di unità nazionale e la nascita di una Repubblica: la rivoluzione era messa da parte e ci si avviava ad un processo di costituzionalizzazione che avrebbe permesso qualche anno più tardi al PCI di entrare a pieno nella vita istituzionale del paese e nel cosiddetto arco parlamentare.

Nel secondo dopoguerra anche se, come abbiamo già detto, il sovvertimento dello status quo e l’assetto più rivoluzionario fu messo nel cassetto anche dai più grandi partiti comunisti europei (italiano e francese). Il movimento operaio non fu però soppresso, ma anzi tornò a brillare di luce propria con la nascita di numerosi movimenti che, ben guidati da partiti e sindacati, riuscirono ad ottenere importanti risultati -pensiamo ad esempio allo statuto dei lavoratori ottenuto in Italia nel 1970.

Occupazioni delle fabbriche, scioperi, manifestazioni di piazza caratterizzarono a lungo la vita politica italiana ed Europea, trovando forse il culmine in quella unione fra studenti ed operai nella stagione del 1968.

In Italia non possiamo poi non citare i numerosi gruppi della sinistra extraparlamentare, che spessò trovarono sfogo anche nel terrorismo rosso, il quale, prima di macchiarsi di sangue, trovò ampio consenso nelle fabbriche del nord Italia.

In quegli anni però la grande politica di massa che caratterizzò il novecento iniziava il suo lento declino.

Se vogliamo trovare un evento, un punto di arrivo e conclusione di questa stagione, lo possiamo trovare sempre in Italia, più precisamente nel capoluogo piemontese: Torino, città dalla doppia faccia, signorile per la storia delle sue grandi famiglie industriali, e proletaria per le migliaia di tute blu che l’hanno animata.

Il 14 ottobre 1978 circa 40mila impiegati e quadri della Fiat -l’industria più importante del paese- sfilarono fra le strade della città, per manifestare il loro totale dissenso ai picchetti operai dovuti a una dura vertenza sindacale iniziata 35 giorni prima. La disfatta operaia e del sindacato fu totale: numerosi operai vennero messi fuori produzione, ma il dato più toccante riguarda i suicidi fra le tute blu, che arrivarono fino a 149.

Con la Marcia dei quarantamila non finì soltanto una dura disputa fra sindacato e azienda, ma si chiuse definitivamente una stagione segnata da lotte, scioperi e conquiste e maturò definitivamente la scollatura fra classe operaia e ceto medio.

L'ingresso del Palazzo della Triennale a Milano nel maggio del 1968.
L’ingresso del Palazzo della Triennale a Milano nel maggio del 1968.
I Quarantamila in marcia in via Roma a Torino
I Quarantamila in marcia in via Roma a Torino

Quello che è adesso impossibile non chiedersi è: quali sono state le cause e gli eventi che hanno portato alla conclusione della politica di massa e della lotta di classe? Come è possibile che nella nostra società la coscienza di classe appare più assente rispetto ad epoche lontane come addirittura il medioevo? Ha ancora senso parlare di lotta di classe? Possiamo definire la nostra società ancora divisa in classi?

Si. La nostra società è ancora fortemente divisa in classi, ciò che è cambiato è però l’assenza di una netta differenza fra usi, costumi, stili, luoghi e consumi fra l’alta borghesia e le classi subalterne.

Trovare delle risposte e delle cause precise per cui oggi la lotta di classe appare più in difficoltà che mai è sicuramente un’impresa ardua, ma possiamo di certo inoltrarci nell’analisi di alcuni avvenimenti storici e sociologici.

Necessario è sicuramente parlare della caduta del più grande paese socialista che sia mai esistito: l’URSS.

Non è mio intento analizzare le cause storiche che hanno portato all’implosione dell’Unione Sovietica, ma di osservare, in maniera assai sintetica, quelle che sono state le conseguenze che tale evento ha prodotto.

È sicuramente scontato dire che la dissoluzione di un paese così immenso abbia avuto degli effetti non solo all’interno dei suoi confini, ma su tutto il mondo; ed è proprio di questi aspetti che ci interessa comprendere la forza.

Il crollo del muro di Berlino dichiarò, ormai definitivamente, conclusa la Guerra fredda, e la conseguente vittoria degli Stati Uniti d’America e del modello capitalista, che proprio in quegli anni viveva un nuovo splendore, rappresentato dalla New Economy e dalle figure di Ronald Reagan e, oltre oceano, Margaret Thatcher.

Si parlò, dopo la pubblicazione nel 1992 di The End of the History and the last man del politologo Francis Fukuyama, di “fine della storia”: lo sviluppo dell’uomo aveva orami raggiunto il suo culmine, esisteva solo un modello possibile e nient’altro.

Il capitalismo ed il mercato erano e sono rimasti gli assoluti vincitori, ma soprattuto l’unico ed assoluto modello a cui guardare, a cui adattarsi, a cui obbedire, a cui ispirarsi.

Se prima chiunque aveva la possibilità di scegliere fra il capitalismo e il socialismo reale sovietico, adesso non esiste alcuna possibilità di alternativa, e di conseguenza risulta difficile, se non a tratti impossibile, anche solo pensare a dei modelli politici ed economici alternativi; se prima si poteva scegliere fra bianco e nero immaginando altri colori, adesso la presenza del solo nero rende impossibile immaginare qualsiasi altro colore.

Altro elemento di analisi è la nascita e la diffusione della società dei consumi.

Il consumo è al giorno d’oggi l’imperativo categorico che anima ognuno di noi.

Noi siamo diventati ciò che consumiamo: il mercato, il capitalismo hanno creato il perfetto strumento di alienazione moderna.

Il consumo ha reso sempre più sottile la demarcazione fra classi, ma non in termini di diritti sociali, ma in termini di desideri materiali.

Le classi subalterne non sono più ispirate da un sentimento di rivalsa nei confronti delle classi dominanti, ma bensì sono affasciante dal loro stile di vita e tentano di raggiungerlo in una dimensione più piccola.

Piccoli obiettivi quotidiani, ovvero l’acquisto di merci che, anche solo per poco tempo o apparentemente, migliorano il nostro status sociale e appagano una serie di falsi bisogni fisiologici e psichici.

Un’esclusività che non è più, come indica la parola stessa, appannaggio di una elité di pochi eletti, ma bensì divine massificata: lavoratori mal pagati aspirano a questa falsa esclusività, ad acquistare merci che non potrebbero permettersi; i pagamenti a rate, i debiti consentono di acquistare ciò che non ci si può permettere, ma di avvicinarsi ad uno status sociale ed economico che si desidera, che viene inculcato tramite quelli che, gramscianamente parlando, potremmo definire i nuovi intellettuali organici della cultura dominante: imprenditori, calciatori e veline ed influencer.

Caratteristica essenziale di tutte le società industriali è inoltre la netta separazione fra la sfera di produzione e quella di consumo. In contesti preindustriali questa separazione esiste, ma è solo parziale: nel modo di vita contadino, luoghi e soggetti della produzione e del consumo si trovano spesso a coincidere, sia nell’ambito dei prodotti materiali, che di quelli “intangibili”. La famiglia contadina (sempre precedente alle rivoluzioni industriali) si rivolge raramente al mercato, e produce da se molte delle cose che le servono.

Nei contesti industriali avanzati, i momenti di coincidenza tra produzione e consumo si riducono drasticamente, la quasi totalità dei beni viene prodotta dall’industria e distribuita ai consumatori. Ciò vale sia per quelli materiali sia per quelli intangibili, gestiti dall’industria culturale tramite i mezzi di comunicazione di massa e le forme di riproduzione tecnica delle arti espressive.

Dagli anni 80 è venuto a svilupparsi un nuovo modello di “nuova economia” non più basato sulla rigidità delle grandi imprese nazionali o multinazionali, che caratterizza il capitalismo classico, ma bensì su una struttura reticolare caratterizzata da estrema flessibilità basata sull’informazione, sulla circolazione di merci anche spesso immateriali ignorando ogni tipo di confine geografico.

A proposito della dissoluzione dei confini fra stati è rilevante l’analisi condotta da Michael Hardt e Antonio Negri, i quali portano avanti la nozione di “Impero”, all’interno della quale hanno condensato l’idea di un nuovo ordine universale, economico e politico, che si presenta come molto diverso dal classico imperialismo.

“Al contrario dell’imperialismo, l’Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzato che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione” (Hardt e Negri 2000)

Dunque siamo difronte ad un tipo di sovranità, concepita come un potere radicato non in specifici individui o gruppi, ma in dispositivi tecnici che risultano costitutivi degli individui stessi. L’Impero non è dunque una forza che assoggetta dall’esterno, bensì una potenza plasmante che penetra in profondità “su tutti i livelli dell’ordine sociale”, inclusa lo soggettività.

Per comprendere al meglio in che modo il mercato ed i consumi arrivino a plasmare la soggettività degli individui consumatori, ci è utile seguire le tesi della Scuola di Francoforte: un centro di studi di orientamento marxista, ma attento alle moderne scienze umane, come la psicoanalisi e la sociologia, costituitasi nel 1923.

La messa a fuoco che questi studiosi operano, si concentra sulla cultura di massa, la quale nasconde la stessa violenza del dominio economico e politico che la produce.

Il suo contenuto “reale” è l’assoggettamento totale dell’individuo al sistema.

Gli studiosi francofortesi si gettano a capofitto all’intento di un’analisi di come il consumo di massa nella sua fase più tarda eserciti il suo potere sull’uomo. Mentre nelle sue prime fasi il capitalismo esercita il potere attraverso strutture coercitive esterne, nella sua fase più avanzata lo esercita influenzando e plasmando direttamente le coscienze degli individui, attraverso strumenti ideologici in grado di penetrare in profondità grazie agli sviluppi delle tecnologie comunicative e alla stessa espansione del mercato.

La grande opera in cui Adorno e Max Horkheimer portano vanti le loro teorie è “Dialettica dell’Illuminismo”. Illuminismo è il nome che i due studiosi danno al corso della civiltà occidentale: la sua dialettica è il paradosso per cui la razionalità volta a liberare gli esseri umani dal dominio della natura finisce, con lo sviluppo del capitalismo industriale, per volgersi in una nuova forma di dipendenza degli individui. Questi ultimi risultato assoggettati a un potere che neanche percepiscono, e la razionalità tecnica che domina le loro vite sfocia in forme di esistenza irrazionali e vuote.

Il ragionamento dei francofortesi si concentra poi sull’industria culturale, la quale, a causa della produzione in serie, è completamente svuotata di qualsiasi valore artistico ed estetico. Essa svolge un ruolo plasmante dei consumatori, sottoponendoli ad una pressione totalizzante che dà solo l’illusione di una maggiore libertà e autonomia.

L’industria culturale avrebbe dunque il potere di costruire e disciplinare i modelli umani dei consumatori, in un modo non tanto diverso da come agiscono i regimi totalitari.

L’analisi condotta dalla Scuola di Francoforte coglie perfettamente nel segno, riuscendo a comprendere in che modo il capitalismo avanzato ed il mercato riescano nell’intento di creare una società alienata, capace di agire solo ed esclusivamente sotto l’effetto di stimoli illusori, arrivando dunque a creare -usando la celebre espressione di Herbet Marcuse- persone “a una dimensione”.

Max Horkheimer (a sinistra), Theodor Adorno (a destra) e Jürgen Habermas dietro a destra, nel 1965 a Heidelberg
Max Horkheimer (a sinistra), Theodor Adorno (a destra) e Jürgen Habermas dietro a destra, nel 1965 a Heidelberg

Queste teorie fin qui analizzate, difettano però su un punto cruciale: non si interrogano sui significati che il consumo culturale assume per i suoi praticanti.

A tale problematica viene incontro il campo di studi dell’Antropologia culturale, che attraverso i suoi metodi etnografici e di ricerca sul campo riesce a mettere in luce una serie di aspetti e sfumature delle pratiche di consumo, spesso troppo nascosti per comprendere la loro importanza. La ricerca antropologica ha qui il compito di defamiliarizzare il consueto e l’apparentemente ovvio, svelando la nascosta simbologia che si trova dietro numerose pratiche di consumo.

In una delle opere più famose di questo campo di studi, ovvero “Il mondo delle cose”, l’antropologa britannica Mary Douglas, si scaglia contro un’idea di comportamento di consumo guidato esclusivamente da una pura razionalità utilitaria, oppure da sentimenti irrazionali come l’invidia o l’emulazione.

Il consumo è sicuramente razionale, ma al tempo stesso rappresenta un complesso sistema culturale, vale a dire un campo in cui si costruisce l’intelligibilità del mondo.

L’aspetto forse più importante della visione proposta da Mary Doouglas sta nel considerare il consumo un campo di relazioni morali: vale a dire strettamente legato ai sentimenti, ai valori e ai rapporti di potere che costituiscono il legame sociale; dunque per quanto prodotti in modo seriale e distribuiti attraverso il mercato, i beni di consumo rappresentano un ricco sistema semantico o “cosmologico”, strutturato attorno alle principali categorie delle società contemporanee.

Il consumo ed il mercato si arenano su questa duplice prospettiva: ampio campo di significati da una parte, strumento di alienazione e repressione dall’altra.

Ciò che occorre fare è collocare le pratiche di consumo in un forte rapporto egemonico-subalterno, ma allo stesso tempo è necessario essere in grado di porsi nella prospettiva dei soggetti consumatori per comprendere in che modo essi interpretano l’ampio sistema simbolico che l’atto del consumo comporta (singolare è ad esempio l’opera entografica “Teoria dello shopping” in cui Miller descrive la spesa al supermercato da parte di mogli e madri come un atto di amore e devozione).

Questa visione ci porta dunque ad osservare come la classe operaia appaia ormai fuori da qualsiasi schema di progresso rivoluzionario, in quanto essa si mostra ingabbiata nelle pratiche di consumo, intenta solamente a replicare stili di vita che non le appartengono in quanto inaccessibili e propri di segmenti di società con un maggiore patrimonio sia economico che culturale.

Le vere classi che conservano ancora una matrice di istinto rivoluzionario sono dunque coloro che sono rimaste fuori dalle logiche di mercato, ovvero gli emarginati, i senza tetto e in particolare modo gli immigrati; tutte categorie considerate spesso al limite dell’umanità, quasi fossero animali da spostare, collocare, rimpatriare ed educare, senza mai interrogarci su quelli che dovrebbero essere i loro diritti.

Cosa fare allora con la classe operai? È ormai da definirsi all’infuori del più ampio proletariato?

La risposta è certamente no, principalmente per due ragioni.

La prima è che gran parte degli operai versa in condizioni di assoluta precarietà, e con lo smantellamento dei sistemi assistenzialisti si trova ogni giorno sempre più in difficoltà.

Il secondo motivo sta nel ruolo che i partiti, i sindacati e le associazioni progressiste dovrebbero avere: ovvero quello di coinvolgere queste classi in una più ampia prospettiva politica attraverso lo sfruttamento proprio di quei sistemi simbolici propri del consumo e del mercato.

È dunque necessario per le forze di sinistra impossessarsi dell’egemonia culturale del mercato e del consumo attraverso la creazione di nuovi intellettuali organici, portando dunque le masse a riottenere un ruolo attivo nella storia.
Simone Savasta

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