26 Aprile, 2024
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Come un diario di guerra…

Come non si può spegnere il fuoco con il fuoco, né asciugare l’acqua con l’acqua, così non si può eliminare la violenza con la violenza. (Lev Tolstoj)

La guerra continua con il suo carico di morte, distruzione, allarmi quotidiani, bombardamenti e paura. Lo scenario iniziato il 24 febbraio 2022 è ben delineato. Milioni di persone hanno dovuto lasciare la propria casa fuggendo all’estero o cercando rifugio all’interno nelle città meno soggette agli attacchi giornalieri dell’esercito russo. La situazione che si delinea per il futuro è davvero complicata, difficile ed allarmante non solo per i nuovi scenari geopolitici che si stanno delineando ma soprattutto per lo sconvolgimento della vita quotidiana del popolo ucraino. Constatiamo, per esempio, giorno dopo giorno, l’aumento della povertà che colpisce non solo la fascia dei nullatenenti o senzatetto, ma anche anziani, famiglie, persone disabili o bisognose di cure mediche. Questa assurda guerra sembra protrarsi per le lunghe ma, nonostante tutto, il desiderio di normalità, di ripartire, di ricominciare, di ricostruire è più forte della paura di nuovi bombardamenti. Si guarda, seppur timidamente, già al futuro da inventare nonostante ci troviamo ancora in piena guerra.

Una guerra anomale che sto vivendo in prima persona. E’già passato più di un anno e l’esperienza acquisita in questi mesi è decisamente singolare. Raccontarla, a volte, mi viene davvero difficile. Provo infatti, più i giorni passano, una specie di distacco da quanto sta accadendo. Come quando ti capita di vivere in una situazione di disagio o al limite del sopportabile e, giorno dopo giorno, cerchi di rimuoverla fisicamente e mentalmente. Ma poi mi ravvedo e sento che ho l’obbligo di raccontare, di informare. In questa guerra noi ci siamo dentro cercando di sanare le ferite inferte a milioni di persone, ferite ancora aperte che bruciano e stentano a rimarginarsi. Nel dialogo quotidiano con la gente sperimentiamo come il meccanismo perverso della guerra si ripete sempre uguale con il suo carico di morte, distruzione e paura. La guerra rafforza l’odio, che poi è difficile da superare e con cui è difficile convivere perché distrugge l’uomo. Non è stato facile celebrare la recente Santa Pasqua, dove il linguaggio, non solo quello della liturgia ecclesiale, parla di pace, perdono, vita, luce, e…sei ancora in guerra! Una guerra che si combatte non solo al fronte o in zone strategiche, ma dentro la coscienza di ognuno di noi. Per questo motivo negli incontri informali come durante le liturgie o in altri momenti cerchiamo di rincuorarci l’un l’altro; non sarà la paura né la disperazione a donarci la pace, ma un serio lavoro della ragione e della coscienza per preparaci già ora, responsabilmente, nei riguardi del futuro. Per questo, con cautela e criterio, cerchiamo di usare parole e compiere gesti che in qualche modo siamo un piccolo segno di riconciliazione e pace per tutti e con tutti. E vi assicuro, non è una impresa facile.

Con la guerra non si scherza, qui la paghiamo tutti sulla propria pelle. Ma credo sia importante fare una distinzione tra le zone occupate ed il resto del paese. Noi, per esempio, abitiamo a Kyiv. La città è stata colpita più volte dai bombardamenti, soprattutto durante i primi mesi di invasione, ma non sono stati registrati danni gravi a persone o edifici. Il disagio maggiore l’abbiamo vissuto durante il recente inverno a causa della mancanza di corrente elettrica. Per alcuni mesi le infrastrutture elettriche del Paese sono state prese di mira e distrutte sistematicamente causando lunghi blackout. Ci sono stati periodi durante i quali non abbiamo avuto la corrente elettrica anche per intere giornate di seguito. Quando la situazione si è un po’ più stabilizzata l’energia elettrica veniva erogata qualche ora alla mattina o alla sera. L’illuminazione pubblica era spenta, come i semafori per strada e tutte le indicazioni luminose. Buio pesto! E’stato uno dei periodi più difficili e complicati. La vita quotidiana era stravolta. Ora la situazione a partire da marzo si è stabilizzata. Differente è invece la situazione nelle zone contese, quelle del Donbass. Le principali città, Mykolaiv, Kherson, Mariupol’, Bakhmut, Kharkiv, a causa dei quotidiani bombardamenti e la guerriglia che infuria da un anno a questa parte, sono diventate “città fantasma”. Città non solo distrutte ma ferite, e la ferita sanguina ancora condizionando fortemente la vita di tutti i giorni.  La popolazione, soprattutto gli anziani, si mettono ancora in fila per ricevere gli aiuti umanitari. Non c’è acqua potabile e la popolazione riesce a dissetarsi solo grazie ad impianti provvisori o di emergenza. Anche se in queste zone la corrente è stata ripristinata solo qualche settimana fa, le scuole non sono agibili e i ragazzi non possono seguire le lezioni in presenza. Sono città che, se da un lato guardano al futuro, sono ben consapevoli che domani potrebbe esserci un’altra invasione o l’ennesimo bombardamento.  Più che ricostruire qui si preparano altri rifugi nei sotterranei dei palazzi; dove è possibile si acquistano dei generatori. Ci si prepara al peggio, proteggendo con pannelli di plastica le finestre in modo da evitare che i vetri possano scoppiare durante i bombardamenti e ferire le persone.

Anche se siamo in una evidente fase di stallo tutti attendono che capiti qualcosa di nuovo o risolutivo non facile però da prevedere o descrivere. Sul “quando” ciò accadrà rimane sempre e comunque l’incognita del “come”. In questa situazione di incertezza la gente è stanca. L’attesa di un cambiamento è tiepida, c’è paura di illudersi. Sappiamo infatti tutti cos’è successo e, dove i russi sono arrivati, hanno seminato distruzione e terrore, uccidendo e scavando fosse comuni. Siamo forse noi ad avere un’immagine naïve della guerra. Loro no.

Credo sia questo il principale ostacolo che contrappone i due popoli rendendoli nemici, lontani nei sentimenti e nella comunicazione. Ostacolo che credo dipende dalla diversa percezione del conflitto e delle cause che l’hanno generato e continuano ad alimentare il fuoco che brucia ogni tentativo di mediazione risolutiva atta ad innescare un processo di pace vera e giusta.  La gente viene a confessarsi e mi chiede: “Come facciamo a perdonare?“. Oppure ti confida che hanno ospitato in casa dei profughi che continuano a ripetere la propaganda russa contro gli ucraini. Puoi dire loro qualche parola di conforto o di speranza, esortarli a pazientare, ma poi ci sono immagini terribili, storie inverosimili e tragedie familiari difronte alle quali non sai che dire o come uscirne. Cosa dici agli animatori dell’oratorio che hanno già perso due giovanissimi amici del gruppo (uno dei due, Oleh, disperso dall’estate scorsa) o hanno il papà in trincea a Bakhmut dove, come scrive il poeta Giuseppe Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Come placare il calvario di un anziano  parrocchiano che tutte le domeniche viene a confessarsi e sfoga il suo dolore raccontando del figlio più giovane partito a settembre per il fronte e del quale non ha più notizie da mesi. Tenti di convincerlo che magari Bogdan sia stato fatto prigioniero, sia ancora vivo, ma ogni giorno che passa la lama della disperazione penetra sempre più profonda nel suo e tuo cuore. Cosa dici alle persone che ti confidano: “Da quando è iniziata la guerra non riesco più a pregare come prima…maledico questa guerra e chi l’ha iniziata”. Quasi ogni giorno  Mykhailo, il giovane confratello ucraino che vive con me,  mi informa: “Anche oggi è morto un mio compagno di scuola e sono già due…ieri hanno ucciso un mio vicino di casa; 23 anni!…hai presente Andry fratello di Roman; ci sarà il funerale domani…”.  Una litania quotidiana. I corpi dei nostri soldati morti vengono raccolti e le salme consegnate ai famigliari per la sepoltura che si svolge in modo solenne e partecipato. Le salme dei soldati russi giacciono nelle trincee e dentro i carri armati bombardati, distrutti e abbandonati. Nessuno si cura di loro. A volte sui social appaino foto dove vengono avvicinati due appezzamenti di terreno; prima della guerra e accanto una foto recente. Se nella prima foto puoi notare una distesa verde, nella seconda quel prato è già stato trasformato in un grande cimitero dove i cumuli di terra (le salme qui in Ucraina vengono tutte sotterrate) sono coperti da fiori e lumini e accanto alla croce svetta la bandiera nazionale. Cosa pensare quando constati che i nostri bambini conoscono a memoria ogni tipo di bomba, di drone, di carrarmato e di fucile sgranando i loro nomi tecnici come noi da piccoli sapevamo tutti i nomi delle figurine dei calciatori… La guerra non si combatte solo al fronte, lanciando droni e missili a lunga e corta gittata o scavando nuove trincee nel ventre della terra. Questa guerra è dentro la nostra pelle ma soprattutto si annida nella coscienza della gente rendendola, a mio avviso, prigioniera di due convinzioni (discutibili) o legittime che siano. La prima è la netta convinzione che da questa tragedia se ne esce solo con la vittoria e cioè dopo aver ricacciato tutti i Russi dentro il loro confine legittimo. Il motivo non è solo legato ad una questione di territorio, per la casa, per la terra, ma per la libertà di essere sè stessi. Il popolo ucraino ha sempre vissuto all’interno di qualcosa di più grosso che lo schiacciava. Proprio per questo stanno ora lottando: per il diritto di essere loro stessi a scegliere come vivere e decidere del proprio futuro. E in questo senso la gente è sicura di non poter perdere. La seconda convinzione la descriverei in questi termini: tutti adesso hanno capito che la guerra andrà per le lunghe. Ma forse la vera questione non è nemmeno la durata, ma il fatto che pur vincendo, il nostro vicino non scomparirà. Ci sono tante persone che, vestendo i panni dei liberatori, sono convinte che si sta facendo un’opera buona. La pace prima o poi verrà ma sarà importante andare avanti tenendo presente che dovremo convivere sempre con questo “vicino di casa”, cercando di capire cosa fare affinché non ci ripensi e non attacchi di nuovo.

Percepiamo queste convinzioni in un contesto ancora carico di paura, amarezza e delusione, aspettando una pace che tarda a vincere mentre armi, droni, bombe, carri armati dettano l’agenda della più assurda delle azioni al grido di: “E guerra sia!”. La guerra ti trasforma e ti distrugge, come la goccia che cadendo lentamente, giorno dopo giorno, ferisce la pietra. Per questo motivo fin dall’inizio non abbiamo lasciato l’Ucraina e le nostre attività pastorali e di promozione sociale, consapevoli che anche la semplice presenza può smuovere le coscienze. Nonostante le difficoltà legate alla situazione attuale continuiamo la nostra opera missionaria che, fin dai primi giorni di guerra non si è mai fermata; all’inizio per dare una prima accoglienza e sostegno morale e materiale ai profughi (soprattutto donne, bambini e persone con disabilità) costretti a scappare dai territori del Donbass e non solo,  e ora cercando di farci prossimo offrendo un aiuto umanitario a tanti poveri e senza tetto, avvicinando bambini, ragazzi e famiglie creando per loro e con loro momenti di incontro, confronto  e svago. In particolare siamo impegnati su quello che abbiamo definito il “fronte della carità” prestando un aiuto materiale a persone meno abbienti. Questo tipo di servizio era iniziato prima della guerra ed interessava una quarantina di “senza fissa dimora” ai quali davamo un pasto caldo due volte alla settimana. A tutt’oggi garantiamo questo tipo di assistenza a circa 150 persone, dando loro anche medicinali, materiale per l’igiene personale ed indumenti. Al gruppo iniziale si sono ora aggiunte molte altre persone soprattutto anziani, profughi, persone con disabilità che traggono giovamento da questo piccolo servizio che continuiamo a svolgere grazie all’aiuto concreto che viene da alcuni amici in Italia tramite l’invio periodico di materiale utile. Con noi collabora anche la Caritas della arcidiocesi di Kyiv e un piccolo gruppo di volontari che ha la caratteristica di essere interconfessionale. E’composto infatti da persone appartenenti alla chiesa greco-cattolica ucraina, ortodossa e protestante quasi a voler sottolineare che la carità e solo la carità è la via sicura per vincere le divisioni colmando i solchi delle differenze, ingiustizie e prevaricazioni che sono la radice di ogni, odio, contrasto ed egemonia.

Da tutta questa esperienza ancora in atto sono due le cose che conservo come tesoro: “Cercare e credere all’ umano che c’è in ciascuno di noi e, come tutti sanno che i metalli più resistenti sono delle leghe, così davanti a questa prova, bisogna legare solidarietà, libertà e coraggio”.   Non è sufficiente “tener duro” ma “tenersi stretti gli uni gli altri” cercando in questo modo non solo di sopravvivere, ma valorizzare in tutti i modo la risorsa della carità-solidarietà. Una energia nuova che offre soluzioni concrete pur in condizioni di emergenza. Perché da soli non ci si salva.
Don Moreno Cattelan

 

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