24 Aprile, 2024
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L’importanza del “dress code”, a scuola come nella vita

Il modo in cui ci presentiamo agli altri, anche come ci vestiamo, è una nostra modalità di espressione. Nella scuola o altrove può essere imposto un certo modo di vestirsi, cioè di esprimersi?

Chiariamoci, uno specifico dress code, che preveda di indossare delle divise, vale per quei gruppi che intendono, nel proprio insieme, far conoscere agli altri, e ricordare ai propri componenti, di essere un raggruppamento di unità omogenee che intende esprimere una certa identità. Per esempio gli appartenenti a una squadra sportiva, a una comunità religiosa o filosofica, a un apparato militare eccetera intendono, vestendosi in maniera quasi identica, spiegare che fanno parte di un gruppo omogeneo in cui non conta il singolo, ma l’insieme, il cui scopo è espresso visivamente anche dal modo di vestirsi “uguale” per tutti i componenti.

L’obiettivo non è “appiattire”

La scuola è un luogo dove l’obiettivo non è appiattire, per rendere tutti identici, ma evidenziare le differenze come potenzialità di crescita del singolo. Obiettivo è quindi non uniformare, ma evidenziare l’unicità di ciascuno, anche stimolandone le capacità espressive. Per questo motivo ciascuno deve essere libero di esprimere sé stesso come meglio desidera e quindi anche vestirsi secondo il proprio gusto.

Il compito della scuola

Ovviamente compito della scuola è anche insegnare il gusto, ovvero l’estetica, stimolando la capacità di “lettura” di ciò che ci circonda, ivi compresi gli atteggiamenti, le espressioni verbali e non verbali, fra cui anche il modo di vestirsi. Lo scopo è aiutare a evitare che chi non sia preparato, non capisca e interpreti male una espressione (un vestito), commettendo, di conseguenza, gravi errori.

Messaggi subliminali

Un classico esempio è nella idea latente, ma non troppo, che chi si vesta in modo “succinto” o “provocante” vada cercando guai.

Sia chiaro: l’errore non è nel vestito “succinto” o “provocante”, ma nella incapacità di chi non sa interpretare il messaggio che si sta trasmettendo, sintetizzabile in “libertà di dimostrare di essere donna”. Questo certamente non si traduce in “violentatemi”, ma al massimo in “apprezza la mia bellezza”, una bellezza che, per chi crede, proviene da Dio. Perciò è ancora peggiore l’azione di chi, credente, non rispetta questa bellezza.

La scuola ha le sue colpe se non insegna l’estetica, cioè quale sia il corretto modo di esprimersi con il proprio corpo (conseguentemente, anche con i propri vestiti) e occorre ricordare che la bellezza è negli occhi e nella cultura di chi guarda, non nell’oggetto osservato.

Insegnare “il bello”

Nell’insegnamento al “bello” deve entrare anche l’insegnamento alla capacità di analizzare il rischio di turbare o offendere il prossimo. Si tratta di una sensibilità, una “morale” che varia molto fortemente nel tempo e nello spazio ed è legata fortemente alla morale ed alla cultura hic et nunc (qui ed ora). Oggi non ci turbiamo più per una caviglia scoperta, come avveniva 100 anni fa, e nessuno di noi si turba per un volto femminile svelato, come invece accade a distanza di 5000 chilometri da qui. Questa morale, dettata dalla comunità o dalla moda, induce a sensibilità estremamente relative.

La scuola è laica, non può dettare limiti: il suo obiettivo deve essere insegnare a esprimersi aiutando a comprendere la realtà che ci circonda. Non deve quindi limitare la libertà, come quella di vestirsi come si desideri, ma anzi deve permettere di esprimersi aiutando a non pagarne un prezzo troppo alto.

Non dimentichiamo, infine, che, spesso, la limitazione della libertà di vestirsi è semplicemente la piantumazione del seme della disparità di genere.

Riccardo Agresti, preside

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