26 Aprile, 2024
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Se Salvini e Meloni fossero onesi chiederebbero scusa agli italiani…

«La guerra! È una cosa troppo seria per affidarla ai militari». Così Georges Clemanceau, detto “il Tigre”, uomo politico della III Repubblica francese, presidente del Consiglio durante l’ultima fase della Grande Guerra, protagonista dei Patti di Versailles che imposero dure condizioni alla Germania sconfitta. Per come è stata condotta la guerra (tutta in difesa) al covid-19 e considerati gli ultimi repentini sviluppi ci sentiamo autorizzati a parafrasare lo statista d’Oltralpe: “La pandemia! È una cosa troppo seria per affidarla ai virologi e, in generale, agli scienziati”. Certo non è colpa di illustri cattedratici ed autorevoli primari se la politica, per darsi delle coperture verso l’opinione pubblica, si è messa nelle mani degli “esperti” e i media hanno fatto incetta di personaggi prestigiosi, contendendoseli nei vari talk show e andando costantemente alla ricerca di volti nuovi da presentare al loro pubblico. Poco alla volta gli esperti si sono lasciati travolgere dall’ondata di popolarità ed hanno assaporato il nettare del potere mediatico: quello stesso che influenzando l’opinione pubblica riesce ad orientare e, spesso, a guidare la politica.

Già nei primi momenti della manifestazione del virus (fino ad allora sconosciuto) le famiglie confinate davanti alle tv avrebbero dovuto “mangiare la foglia”: era troppo evidente la discrepanza con cui i virologi e affini illustravano le caratteristiche del virus (come se il covid fosse stato il tema della loro tesi di laurea) e la banalità delle precauzioni suggerite (lavarsi le mani, evitare i contatti fisici, indossare una mascherina se proprio si voleva essere zelanti oltre il necessario). La linea che prevalse tra gli esperti consultati dall’esecutivo era orientata a una rappresentazione drammatica della situazione (del resto l’evidenza – al di là degli errori e delle sottovalutazioni – non lasciava dubbi in tal senso). I medici ‘’riduzionisti’’ venivano pubblicamente tacitati nelle “corride” televisive. Del resto apparve subito chiaro che la questione centrale era quella di impedire che il Servizio sanitario fosse travolto da una vera e propria aggressione di contagiati in condizioni estreme. Il governo fu indotto a disporre un regime di lockdown, molto ampio che – come sappiamo – ha creato effetti devastanti dell’economia (anche se alcuni settori, chiamati ad assicurare i beni e i servizi necessari, hanno accresciuto i loro ricavi) e forti limitazioni non solo dei diritti, ma anche delle consuetudini di una vita normale. Le misure adottate – ancorché discutibili – erano sostenute da un reale consenso determinato dal clima di panico che aveva travalicato le frontiere, attraversato i mari e scalato le catene montuose.

“Andrà tutto bene” era lo scongiuro diffuso per persuadersi del fatto che l’epidemia, come era iniziata, così sarebbe finita, grazie ai comportamenti virtuosi imposti. Subito furono accantonate tutte le regole di bilancio e si lasciò intendere all’opinione pubblica che sarebbe arrivato da varie fonti, nazionali ed europee, un ammontare straordinario di risorse, come non se ne erano mai viste, per ‘’ristorare’’ i redditi e i fatturati, congelare i licenziamenti in attesa che l’incubo finisse e tutto tornasse come prima. Effettivamente, andando verso l’estate, la curva di tutti i parametri quotidianamente monitorati durante l’emergenza, cominciò a declinare, consentendo di riaprire le aziende e i servizi e restituendo la normale quotidianità alle persone. Ricordo che qualcuno sosteneva, in quelle settimane, che in realtà si stessero truccando le statistiche per non mortificare troppo la stagione turistica.

Ma la linea era cambiata: eravamo stati bravi, obbedienti, responsabili e disciplinati; eravamo diventati un esempio per tutto il mondo sviluppato, in barba a quanti ci avevano umiliato nelle prime settimane di crisi. Il Servizio sanitario aveva tenuto e si era rafforzato, potenziando le terapie intensive (nessuno faceva caso alle centinaia di migliaia di interventi per gravissime patologie rinviati per dare priorità ai pazienti colpiti dallo stigma del millennio, che per mesi erano apparsi come i soli a morire). Ma il fuoco non era spento: le notizie sulla diffusione del contagio erano finite in coda ai tg, ma i ricoveri e i decessi non erano scomparsi.

È stato durante questo passaggio attraverso la “terra di nessuno” di un contagio mitigato, che l’opposizione sovranpopulista ha perso – sul piano etico – il diritto di criticare oggi le inadempienze del governo. Per Salvini e Meloni l’epidemia era finita e la richiesta di una proroga dello stato di emergenza era una pretesa inaccettabile, contro la quale fu persino organizzata una manifestazione di protesta. Ma se avessero un briciolo di onestà politica e personale sia Giorgia Meloni che il suo “compagno di merende” leghista dovrebbero delle scuse agli italiani.

Almeno a quelli che non hanno dimenticato la linea di condotta dei due boss della destra-destra in agosto. Ci fu una infuriata requisitoria della presidente di Fdi nell’emiciclo dell’Aula della Camera («Pazzi irresponsabili, non vi daremo tregua»). Mentre Salvini intervenne al convegno dei “riduzionisti” (la sezione dei “terrapiattisti” del covid) organizzato da Vittorio Sgarbi, sostenendo che l’epidemia aveva esaurito la sua spinta propulsiva, ma che il governo voleva tenerla accesa importando immigrati clandestini allo scopo di impestare i nostri concittadini. «Per prorogare uno stato d’emergenza – tuonò l’ex Capitano – serve un’emergenza. E dov’è l’emergenza? Basta guardare i numeri, le terapie intensive. Non c’è più emergenza, a meno che qualcuno voglia usare questo pretesto per salvare la poltrona, per motivi politici e non sanitari». E ancora: «Il governo sta importando infetti. Magari è una strategia per tenerci sotto lo stato di emergenza». Per non parlare delle piazze piene durante la campagna elettorale e i selfie generosamente erogati dal leader della Lega in quelle occasioni.

Ma a decidere che la linea era cambiata sono stati i virologi e affini (questa volta zittendo le Cassandre che predicavano sventure). In questa fase – sostenne l’insigne patologo Giuseppe Remuzzi in una intervista a Il Foglio – il Servizio sanitario può contare su 8mila posti in terapia intensiva, utilizzati solo per l’1,5%. E aggiunse che, anche arrivando al numero dei ricoverati in Francia, sarebbe stato comunque occupato solo il 5% dei letti disponibili. Una situazione del tutto diversa da quando era necessario stabilire delle priorità anche a costo di mettere a rischio delle vite. Rimanevano, però, altri gravi problemi sottotraccia. Il più importante dei quali riguardava la riapertura delle scuole. Per quanti sforzi si facciano – ammoniva Remuzzi – per mettere in sicurezza il personale scolastico e gli studenti, il rischio zero non esiste. Sorgeranno problemi che andranno affrontati senza panico. Nel primo pomeriggio di quella “domenica bestiale”, quando, all’ora di cena, ci crollò addosso il mondo all’improvviso e si fece ritorno ai Dpcm, il presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli, ospite a “Mezz’ora in più” su RaiTre, ci aveva rassicurati. «Che ci sia stata un’accelerazione, negli ultimi 10-15 giorni, del numero dei contagi in tutta Italia è un dato di fatto. Ma andrei cauto – aveva sostenuto il presidente – prima di parlare di crescita esponenziale. Non siamo in questa situazione». «È giusto guardare ai numeri con massima attenzione e allerta, ma non siamo in una situazione né di panico né di allarme. Degli 11mila casi registrati ieri, solo un terzo è sintomatico. Nella fase critica, a marzo, individuavamo tutti soggetti sintomatici».

E ancora: «Siamo a quasi 700 persone ricoverate in terapia intensiva, un numero che non è paragonabile al momento del picco della scorsa primavera». Inoltre, aveva osservato il professore, l’Italia è «un Paese con un tasso di positivi in rapporto ai tamponi tra i più bassi d’Europa. La situazione sanitaria non è comparabile con marzo», aveva ribadito. Ma il racconto di Locatelli si diffondeva ancora in ulteriori rassicurazioni. «Non credo che dobbiamo arrivare a un coprifuoco serale» per contrastare la diffusione dei contagi da coronavirus, «certo un occhio sugli assembramenti forse va dato, magari implementando i meccanismi di sorveglianza». Per Locatelli, poi, «in Italia abbiamo imparato a proteggerci» e «abbiamo una formidabile capacità di fare tamponi». «Io credo che le Regioni abbiano tutta una serie di piani per attivare le rianimazioni. Non sono stati attivati perché non ce n’è stata l’esigenza.

Abbiamo 700 terapie intensive su 6.600 adesso». Sempre secondo il presidente Locatelli, era «indubitabile che ci sia stata forte crescita» del numero di contagi negli ultimi giorni, ma, non è necessario chiudere le scuole. «Prima la scuola – insistette – La scuola, insieme al lavoro e alle attività produttive, è la priorità. È stato fatto uno sforzo straordinario e va tenuta aperta. Il contributo della scuola nella diffusione del virus non è assolutamente d’impatto». E il vaccino, gli chiesero? «Probabilmente lo avremo disponibile nella primavera del 2021». «Fino ad allora dobbiamo convivere in modo da minimizzare l’impatto del coronavirus sulla vita degli italiani». Quanto al rischio di una nuova chiusura generalizzata del Paese, Locatelli commentava: «Voglio sperare che non arriviamo a lockdown su scala nazionale, si sta lavorando a questo, anche per contemperare la tutela della salute con il mantenimento delle attività produttive nel Paese». Se il numero di contagiati da coronavirus arriverà o arrivasse in Italia a quota 600mila, allora sì che si potrebbe parlare di pandemia “fuori controllo”, chiariva Locatelli. Sono diversi i fattori da considerare prima di poter parlare di pandemia fuori controllo: «occupazione dei posti letto, contact tracing».

Oggi – ricordò – c’è una linea di pensiero che si sta sviluppando in ambito europeo secondo cui «il sistema rischia di andare fuori controllo quando c’è circa l’1% di popolazione infetta, in Italia quindi 600.000 persone». Questa «è una variabile troppo influenzata da una serie di strategie che prevengono questo scenario, i modelli matematici (quelli usati dagli scienziati che avevano chiesto con urgenza il lockdown? ndr) sono utili ma – ribadì Locatelli – bisogna tenere in considerazione i dati che possono interferire». Una settimana dopo (sabato 24 ottobre), mentre gli italiani attendevano il supplemento del Dpcm di nuovo conio, a Stasera Italia, un altro virologo forniva una valutazione prudente, benché realistica, della situazione: il 95% dei contagiati – affermava – sono asintomatici o leggermente sintomatici, ma essendo ridotta la quota di virus introiettata, di solito non manifestano abbastanza tasso di ‘’infezione’’ da trasmettere alle persone con cui vengono a contatto. Poi, con garbo, aveva criticato gli scienziati che facevano allarmismo ingiustificato. Quanto all’appello dei cento scienziati rivolto a Mattarella e a Conte, il medico faceva notare che nessuno dei firmatari era un seguace di Esculapio, ma appartenevano tutti ad altre discipline. Da qui era partita una critica al modello matematico usato per prevedere il progredire dei contagi.

Ma – direbbe Marc’Antonio – “Conte denuncia una situazione che può scappare di mano. E Conte è un uomo d’onore”. Qualche cosa il governo doveva pur fare. Che senso ha avuto, però, anticipare alle 18 la chiusura di bar e ristoranti e degli altri esercizi pubblici? Innanzitutto tale misura, almeno per la ristorazione, significa togliere di mezzo i due terzi dell’attività, perché non c’è confronto tra il numero degli avventori a pranzo e quelli a cena, soprattutto nei fine settimana e sempre in condizioni di sicurezza come prescritto dai protocolli. Lo stesso discorso vale per i cinema, i teatri e i luoghi di spettacolo. Se l’esperienza della scorsa primavera ha fornito qualche insegnamento, non c’è una “seconda ondata”: è sempre la stessa di prima. Vogliamo metterci a giocare a nascondino con il covid-19? Il virus – dopo un periodo di trend decelerato per effetto delle misure di contenimento – attenderà il momento della riapertura che prima o poi dovrà pure avvenire. Che fare allora? Si va avanti con un’indefinita politica di stop and go?

Incuranti della letalità in cui incorrono le imprese? Ben vengano le misure di “ristoro”, ma il problema non è quello di assicurare la sopravvivenza dell’imprenditore, piuttosto la salvezza dell’impresa. Questo perché lo Stato non sarà mai in grado di accollarsi, non solo i redditi (attraverso la cig), ma anche i fatturati, per un tempo indefinito. C’è poi la questione della messa in quarantena della PA con il pretesto dello smart working e della forte raccomandazione (si è mai vista un norma che si limita a dare pressanti consigli?) di passare al “dad” nella scuola superiore in nome di una logica del “fai da te” che garantisce molto poco sul piano effettivamente formativo. Il governo procede a tentoni: sa che deve fare qualche cosa, ma non sa bene se le misure serviranno o meno. Nell’ordinamento costituzionale la serrata non è un diritto, ma è pur sempre una libertà. Perché le organizzazioni delle professioni colpite non proclamano una “serrata a rovescio” rifiutandosi di chiudere all’ora stabilita?

(Il Riformista, Giuliano Cazzola, 31 Ottobre 2020)

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