27 Aprile, 2024
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L’Opec fa 60, tra  Covid e transizione green

Compleanno amaro per il cartello dei Paesi produttori di petrolio. Il monopolio esercitato fino a pochi anni fa è in crisi. Tuttavia gli analisti sono pronti a scommettere che per il ‘de profundis’ sia ancora presto 

Poteva essere sicuramente un compleanno migliore quello dell’Opec che il 14 settembre ha compiuto 60 anni. L’organizzazione sta attraversando una delle peggiori crisi della sua storia: la domanda di petrolio è ormai da mesi in calo a causa del Covid-19 ma anche per la transizione energetica. Il monopolio esercitato fino a pochi anni fa è in crisi e al suo interno non regna l’armonia. Tuttavia gli analisti sono pronti a scommettere che per cantare il ‘de profundis’ sia ancora presto.

Fondata il 14 settembre 1960 su iniziativa di Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait e Venezuela, l’alleanza conta oggi 13 membri, più 10 Paesi produttori (esterni all’organizzazione) che hanno dato vita all’Opec+. Insieme rappresentano circa la metà della produzione mondiale di oro nero.

La grande crisi inizia agli inizi di marzo quando è stato compiuto dai membri del cartello un gigantesco errore di valutazione:

di fronte al calo dei prezzi causato dal progredire della pandemia anche al di fuori della Cina, Opec+ non è riuscito a decidere cosa fare. Tale inazione, causata da visioni differenti tra Russia e Arabia Saudita, ha provocato un crollo storico dei prezzi, con il Wti sceso in territorio negativo (-34 dollari al barile), per la prima volta nella storia, il 20 aprile scorso.

Qualche giorno prima – il 9 aprile – di fronte alla bufera delle quotazioni e agli stoccaggi strapieni in giro per il mondo, l’Opec+ ha capito che non poteva continuare a litigare (la cosiddetta ‘guerra dei prezzi’ tra Russia e Arabia Saudita) e decideva di ridurre la produzione fino al 20% (con l’aiuto degli Stati Uniti), permettendo in questo modo la lenta ripresa delle quotazioni fino ai livello attuale (intorno ai 40 dollari al barile).

In realtà la posizione degli Usa è stata anomala, indotta più dal mercato che da scelte ‘politiche’.

Pur essendo stato uno degli artefici dell’intesa tra Russia e Arabia Saudita, gli Usa di Donald Trump non hanno mai garantito una quantità certa di tagli. Con la motivazione che gli Stati Uniti non hanno compagnie di stato, la riduzione di produzione di greggio americana è stata determinata più dallo stop forzato per il crollo della domanda e dal fallimento di alcune compagnie di shale oil che da una decisione pianificata a livello governativo.

Anche questo ha cagionato malumori tra molti membri dell’Opec e causato difficoltà a far rispettare gli impegni sui tagli di 9,7 milioni a partire da maggio scorso. Ne è scaturita un’adesione non omogenea tra i vari paesi e la perdita di credibilità del cartello, come denunciato dal ministro saudita dell’Energia, Abdulaziz bin Salman. Tra i disobbedienti, in particolare, Nigeria e Iraq. L’impatto più forte per mondo petrolifero è arrivato dal settore dei trasporti il cui blocco e le restrizioni di viaggio hanno minato profondamente i consumi che, secondo alcuni analisti, non torneranno mai più ai livelli dello scorso anno.

In realtà non tutti gli analisti sono d’accordo. Questo calo annunciato “non significa che si passerà da domani a zero consumi”, ha detto Paola Rodriguez-Masiu, analista di Rystad Energy, sottolineando che nel pieno della crisi il mondo ha continuato a consumare più di 70 milioni di barili al giorno, rispetto ai 100 milioni prima della pandemia. “Anche se la domanda ha raggiunto il picco, è molto probabile che il petrolio rimarrà centrale per i prossimi vent’anni”, ha aggiunto Alberto de Casa di ActivTrades.

A sessant’anni, l’Opec è dunque ben lungi dall’aver detto l’ultima parola.

Il basso costo di produzione dei suoi barili, che l’Arabia Saudita lascia ad esempio “intorno ai 10 dollari” ricorda l’analista di Rystad, rende l’organizzazione molto resiliente. “L’estrazione di petrolio in Arabia Saudita è anche molto meno costosa in termini di emissioni di CO2 rispetto al fracking”, tecnica invece ampiamente utilizzata negli Stati Uniti e criticata per i danni che provoca all’ambiente, osserva Rodriguez-Masiu.

I membri del cartello detengono anche le più grandi riserve mondiali di greggio: Venezuela, Arabia Saudita, Iran e Iraq occupano quattro dei primi cinque posti in termini di riserve nel mondo secondo la l’Eia, il braccio statistico del Dipartimento Energia americano. Se Philippe Sebille-Lopez, analista indipendente e direttore di Geopolia osserva che “le prospettive per il cartello non sono mai state cosi’ sfavorevoli”, Carlo Alberto de Casa risponde che l’organizzazione dei paesi esportatori “è certamente meno influente rispetto al passato, ma rimane un peso massimo”, aggiunge concludendo che anche se “alcuni si spingono al punto di dire che l’Opec è fuori moda, io non ci credo”, conclude.

(Agi)

 

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