8 Maggio, 2024
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In tempo di Covid lo smartworking è stato un’esigenza ma da metà settembre tutti tornino alla normalità

Lettera di un lettore de La Stampa, e risposta del direttore Giannini

Caro Direttore,

con l’arrivo dell’emergenza coronavirus ha preso piede la modalità di lavoro in smartworking, cosa certamente utile, che può portare indubbi vantaggi sia agli industriali sia ai lavoratori, almeno per determinate attività. Sembra inoltre che questa modalità di lavoro abbia preso molto piede, anche troppo, nella Pubblica amministrazione. Gli esempi più eloquenti sono l’Inps e l’Agenzia delle entrate che indugiano ad aprire i loro sportelli, ma continuano a far lavorare i dipendenti da casa.
Mi chiedo solo se tutto ciò non sia anche un grande vantaggio per lo stuolo di “furbetti del cartellino”, che diventeranno i “furbetti da casa” delle Pubbliche amministrazioni, perché non dovranno più ricorrere ai colleghi per le timbrature. Non solo, già oggi, passata la paura, l’emergenza coronavirus è diventata per molti una vacanza o una scusa per fare i propri comodi.  Forse, per il futuro, mi chiedo se non sarebbe più saggio e prudente che il Governo “proibisse” anziché incentivare lo smartworking nella Pubblica amministrazione,  per evitare l’effetto deserto negli uffici pubblici (smartworking o no). Scandaloso è anche il mondo della scuola dove insegnanti e bidelli, invece di stare a casa in cassa integrazione come tutti gli altri lavoratori, sono stati sì a casa, ma a stipendio pieno come promozione elettorale.

Ermanno Pirola
Caro signor Ermanno Pirola,

tra i tanti cambiamenti epocali che il coronavirus ha impresso e sta imprimendo alle nostre vite lo smartworking è forse il più rivoluzionario, e forse anche il più gradito. Nella stagione in cui abbiamo conosciuto la più drastica e drammatica restrizione delle nostre libertà (civili, sociali, economiche e persino affettive) il cosiddetto “lavoro da casa” ci ha permesso di continuare a vivere, in ogni senso, e a sentirci vivi. È stato sicuramente ed è tuttora un “modo della produzione” che, con la sua estrema flessibilità, ha aiutato imprese e lavoratori a gestire l’emergenza nelle sue forme più diverse: da un lato la necessità di rispettare il lockdown duro e il distanziamento, dall’altro quella di garantire il funzionamento del motore dell’economia nazionale, sia pure “a distanza” e a ritmi ridotti.
Questo spiega il perché sia stato così diffuso il ricorso a questo strumento. Esisteva anche prima del Covid, e coinvolgeva poco più di 500 mila lavoratori. Era un metodo ancora sperimentale, concentrato soprattutto nel settore dei servizi riservato a poche categorie e a pochi segmenti produttivi. Ma dopo il Covid è diventato la norma. Secondo uno studio condotto dalla Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, oggi lavorano “da remoto” circa 8 milioni di italiani. Una cifra impressionante, che non accenna a ridursi perché in questo momento le aziende continuano a mantenere alta la guardia delle precauzioni, per paura della seconda ondata della pandemia. Dunque, e con tutta evidenza, lo smartworking piace ai lavoratori e conviene alle aziende, come osserva anche lei. E continuerà a essere così, visto che il Decreto Rilancio appena convertito in legge dal Parlamento prevede che fino al mantenimento in vigore dello “stato di emergenza” (per ora fissato al 31 luglio, ma probabilmente prorogato fino al 31 ottobre) i lavoratori dipendenti con almeno un figlio entro i 14 anni avranno diritto al lavoro “a distanza” anche senza gli accordi individuali previsti dalla legge 81/2017 (sempre che questa modalità sia compatibile con le caratteristiche della loro prestazione). Questo è il tema, in linea generale. Poi lei, caro signore Ermanno, pone una questione particolare: lo smartworking nel pubblico impiego. Qui ci muoviamo in un campo minato. La sua tesi è che il lavoro “da remoto” nel settore pubblico equivale a “non lavoro”, e che i “furbetti del cartellino”, non dovendolo più firmare, si trasformino (o forse si siano già trasformati) nei “furbetti del divano”. Capisco il suo dubbio, anche se tradisce un certo pregiudizio nei confronti dei “travet” della P.A., troppo spesso iscritti d’ufficio nel girone infernale dei “fannulloni”. Non è vero, o per lo meno non lo è sempre. Ma certo nel settore pubblico, che occupa 3 milioni 200 mila persone, il lockdown si è tradotto in molti casi un’interruzione di pubblici servizi che ha creato problemi rilevanti ai cittadini. Nei giorni scorsi lo ha denunciato il giuslavorista Pietro Ichino, secondo cui “lo smartworking per molti dipendenti pubblici si è tradotto in una vacanza retribuita”. Senza generalizzazioni, penso tuttavia che il problema di disciplinare il lavoro “a distanza” in modo più rigoroso, anche sotto il profilo contrattuale, esista e non vada sottovalutato. Sono i sindacati stessi del pubblico impiego che dovrebbero farsene carico. E in ogni caso, se è vero che dal 14 settembre riapriranno le scuole e i nostri figli torneranno sui banchi (sia pure a rotelle) forse è il caso che dalla stessa data riaprano anche tutti gli uffici pubblici. Con i dipendenti mascherati, guantati e sanificati, ma finalmente “in presenza”. Anche il divano, alla lunga, stanca.

(La Stampa)

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