19 Maggio, 2024
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Mario e il ricordo di suo padre: “Luciani Silvio, promosso!”

Papà era del trentacinque. Negli anni della guerra faceva le elementari, quando poteva, come poteva.

All’epoca i bambini erano raggruppati in affollatissime pluriclassi ma questo non accadeva per mancanza di bambini, semmai per mancanza di insegnanti, difficilmente reperibili, specialmente nei comuni più piccoli. Le bambine erano poche ma i bambini ci andavano anche se pochi poi continuavano gli studi. Fermarsi alla quinta era un destino comune perché continuare significava andare fuori paese, in qualcuno dei collegi religiosi del nord Italia e il motivo principale era ovviamente la povertà, che costringeva i bambini ad avviarsi precocemente al lavoro, un lavoro umile, faticoso ed umiliante.

Andare a scuola in quegli anni era una vera e propria avventura, raccontava spesso papà. Non c’era la biro e si scriveva con il lapis, la matita, e con il pennino. L’inchiostro non si comprava, si faceva con acqua, estratti di linfa di pioppo anneriti con bacche schiacciate. I bambini lo ingoiavano spesso per gioco ma funzionava.

Papà, come tutti, si portava il banchetto per sedersi, un bussolotto metallico con le braci accese ed un po’ di carbone per la stufa della scuola. La carta era poca e non si sprecava, libri praticamente non ce n’erano e l’orario era flessibile. Le scarpe non tutti le avevano e nelle giornate col sole non venivano sprecate per andare a scuola.

Il maestro usava spesso le mani per insegnare. Più per picchiare i bambini che per scrivere sull’unica lavagna. All’epoca era prassi comune, non solo accettata, ma incentivata dai genitori che approvavano e ringraziavano. L’ordine in classe veniva mantenuto con grande difficoltà nonostante le sberle. Però i bambini a scuola, diceva papà, ci andavano sempre volentieri.

Non c’era il problema del pasto, della merenda. Semplicemente non c’era la merenda e spesso, a casa, neanche il pranzo.

Arrivò la fine della primavera e il maestro si alzo in piedi per leggere il risultato finale dell’anno scolastico: “Luciani Silvio, promosso!” Non ci furono applausi ma il bambino si alzò in piedi e con tutta l’innocenza dell’età disse: “Signora maestra, che classe ho fatto?”

Cosa aveva imparato in quei mesi? A sopravvivere, a raccogliere funghi, procurarsi la legna, mettere le trappole per uccelli da mangiare, sgraffignare un po’ di pane da soldati tedeschi compiacenti. Espedienti, leggere, scrivere e poco altro, ecco cos’aveva imparato. Però una lezione gli rimase chiara per il resto della vita: la scuola era importate, gli piaceva.

Dopo la guerra andò in collegio con altri del paese. Un prete buono del posto raccoglieva i bambini poveri e li affidata ai religiosi di Montichiari che non pretendevano rette fisse. Gli apostolini li chiamavano e si salvarono. Oltre a papà ne ho conosciuto diversi. Non uno ricordava gli anni bui con tristezza, ricordavano la fame, il freddo ma non la tristezza.

Furono quelli come loro a ricostruire l’Italia dopo la guerra. Quelli che sapevano cosa significa lottare.

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