A cinquant’anni dalla sua scomparsa, ricordare Pier Paolo Pasolini significa confrontarsi con la complessità di un artista che ha trasformato il cinema in strumento ideologico e antropologico. Le sue immagini hanno portato sullo schermo dolore e marginalità con lucidità rara e violenza poetica come cifra stilistica. Per Pasolini, l’immagine non è mai solo rappresentazione. Il suo sguardo rifugge da una generale omologazione, persino fisiognomica, evita ogni bellezza patinata, per cercare la verità sporca delle periferie, delle classi deboli, del proletariato, che considera depositari dei valori umani: integrità morale, spiritualità, autenticità in netto contrasto con la corruzione delle classi borghesi, in una visione rousseauiana. In “Accattone” (1961), pur conservando l’iconografia neorealista, Pasolini ne rompe i codici: il protagonista non si redime, ma si consuma nella propria marginalità e non c’è denuncia, ma si invoca un cambiamento profondo. I dannati della terra diventano icone antiche con un lirismo feroce, quasi sacrale, sono autentiche, commoventi e, secondo il pensiero del maestro, migliori rispetto alla corruzione del capitalismo. In “Mamma Roma” (1962), Anna Magnani è una Madonna laica, martire di una redenzione impossibile. Completa il racconto delle borgate romane “La ricotta” (episodio del film collettivo “Ro.Go.Pa.G”, 1963), opera metacinematografica che riflette sul cinema stesso. Girata in bianco e nero con scene allegoriche a colori come tableaux vivants, continuamente interrotti da irruzioni del proletariato. Orson Welles, regista del film nel film, è qui l’alter ego di Pasolini, portavoce del suo pensiero. Nel 1965 Pasolini gira “Comizi d’amore”, docufilm in cui attraversa l’Italia interrogando la gente su temi allora tabù: sesso, omosessualità, divorzio. Emerge un Paese diviso tra nord e sud. Contribuiscono alla riflessione gli interventi di Moravia, Cederna, della Fallaci, di Ungaretti e Musatti. Con la “Trilogia del mito” – “Edipo re” (1967), “Medea” (1969), “Appunti per un’Orestiade africana” (1970) – l’intellettuale affronta la tragedia classica non per adattarla, ma per ridarle un senso arcaico, fuori dal tempo. Negli anni Settanta, il suo cinema diventa più politico e radicale. “Il Decameron” (1971), “I racconti di Canterbury” (1972) e “Il fiore delle Mille e una notte” (1974), la cosiddetta “Trilogia della vita”, tentano di liberare l’erotismo dalle gabbie morali. Ma lo stesso Pasolini rinnegherà questi film, accusandoli di essere stati travolti dall’edonismo consumista. Con “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975), il suo ultimo film, Pasolini firma un atto di accusa totale, un’opera estrema. Pasolini ha fatto del cinema uno strumento di lotta. La sua macchina da presa non consola, non spiega, non educa. Interroga. E condanna.
Marzia Onorato


