28 Marzo, 2024
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1° dicembre 1970. Cinquant’anni fa il divorzio, l’inizio della secolarizzazione

Il 1° dicembre 1970 la Camera approvò la legge di disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio

L’introduzione del divorzio nella legislazione italiana e la battaglia referendaria che coinvolse il Paese nella prima metà degli anni Settanta rappresentano un significativo momento di svolta nelle vicende nazionali. Insieme alla contestazione studentesca, ai ripetuti episodi di dissenso e critica nei confronti dell’autorità ecclesiastica, alle rivendicazioni dei lavoratori dell’autunno caldo, fino a giungere agli anni turbolenti della “strategia della tensione”, anche la questione del divorzio, che si estese nell’arco di un decennio, tra il 1965 e il 1974, contribuì a rendere sempre più evidente il processo di secolarizzazione che stava coinvolgendo l’Italia. La vicenda della legge sul divorzio si intrecciò con quella della revisione del Concordato che, in virtù dei Patti Lateranensi, regolava i rapporti tra Stato italiano e Santa Sede. Il decennale periodo in cui si compì l’iter parlamentare che portò alla legalizzazione del divorzio e al successivo referendum abrogativo della legge coincise, sin quasi dal suo inizio, con il pontificato di Paolo VI. Giovanni Battista Montini era Papa da più di due anni quando il parlamentare del Partito socialista italiano, Loris Fortuna, nell’ottobre del 1965, presentò alla Camera dei deputati il suo progetto di legge sull’istituzione del divorzio.

Ad appoggiare la proposta del deputato socialista si aggregò un gruppo d’ispirazione radicale, organizzato da Marco Pannella, che promosse una “Lega per l’istituzione del divorzio in Italia”. I toni accesi e polemici di una parte della stampa laica italiana nei confronti delle posizioni contrarie ai propositi di istituzionalizzazione del divorzio, ribadite dalla Chiesa, suscitarono amarezza in Paolo VI che temeva l’influenza negativa esercitata sull’opinione pubblica dalle pressioni di «certa stampa che, al riguardo, fa aperta propaganda di idee sovvertitrici», come egli osservava in una lettera riservata. Papa Montini auspicava quindi una più incisiva presa di posizione da parte della stampa cattolica, il cui impegno sarebbe stato importantissimo «per agire con successo in un mondo così restìo a comprendere il valore anche soltanto naturale e sociale, oltre che religioso» del legame coniugale e dell’unità familiare. Queste riflessioni e i timori sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, lasciate trapelare da Paolo VI all’inizio del 1968, ebbero notevole influenza nell’indurre il Papa a sostenere con risolutezza, la nascita, avvenuta il 4 dicembre di quello stesso anno, del quotidiano cattolico nazionale “Avvenire”.

Paolo VI si trovava in Australia e la Santa Sede rispose con una Nota formale di protesta. Dalle colonne di “Avvenire” venne lanciata l’idea del referendum

​Già nel periodo in cui fu arcivescovo di Milano, alla guida della metropoli italiana in cui, tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del secolo scorso, con maggior evidenza si manifestarono gli effetti della modernità, Montini aveva colto i segnali di una società che si stava secolarizzando, mentre più frequenti erano, soprattutto nel-l’Italia settentrionale, le separazioni legali. Un parroco milanese raccontò di aver trovato «trecento famiglie illegittime nella mia parrocchia, quando si contavano una volta sulle dita uno, due, tre… cinque – come riferì all’arcivescovo – e non lo sapevo, e non lo vedevo ». Dopo aver dedicato il Sinodo minore diocesano del 1959 al tema “Matrimonio e famiglia”, il futuro Pontefice espresse le sue considerazioni nella lettera pastorale rivolta alla diocesi ambrosiana per la Quaresima del 1960 e intitolata Per la famiglia cristiana. In questo testo, pubblicato ses- sant’anni fa, l’arcivescovo esaminò con chiarezza le problematiche che minavano e alteravano l’unità della famiglia e trattò la questione del divorzio, soffermandosi inoltre sul dramma dell’aborto e sul problema, allora insorgente, della regolamentazione delle nascite.

Montini tuttavia mostrava fiducia nella retta coscienza dei cristiani ed esortava i fedeli a intendere e vivere l’amore, anche familiare, come carità. «Carità è diventato l’amore» – scriveva il futuro Paolo VI, sottolineando nel manoscritto originale, con un tratto di penna, proprio il termine carità, da lui tanto prediletto e declinato, nel suo percorso biografico e spirituale, in tanti differenti contesti. La lettera pastorale di Montini presentava alcune similitudini, pure sul piano terminologico, con l’ultima enciclica di Paolo VI, la Humanae Vitae, promulgata otto anni dopo, nel luglio del 1968, e alcune espressioni sul legame coniugale, sulla famiglia e sulla fecondità, contenute nel testo indirizzato ai fedeli ambrosiani, saranno riprese, oltre che nell’enciclica del 1968, in altri successivi discorsi pronunciati dal Papa che, nel 1973, istituì un Comitato per la famiglia (trasformato poi in Pontificio Consiglio).

Giovanni Battista Montini era Papa da più di due anni quando il parlamentare del Partito socialista italiano, Loris Fortuna, nell’ottobre del 1965, presentò il suo progetto di legge

​L’acceso dibattito parlamentare sull’approvazione della legge sul divorzio logorò il rapporto tra i partiti di maggioranza, causando nell’estate del 1970 la caduta del governo guidato dal cattolico Mariano Rumor che, «del tutto sfinito», lasciò la presidenza del Consiglio non tanto per lo sciopero generale organizzato dalla Cgil, ma – come avrebbe rivelato lo stesso esponente democristiano nelle sue Memorie – proprio a causa delle insorgenti difficoltà a gestire i rapporti con gli alleati di governo (socialisti, repubblicani, liberali), che mantenevano una posizione intransigente rispetto alla legalizzazione del divorzio. Dopo una contrastata approvazione al Senato, il divorzio entrò a far parte della legislazione italiana con il voto definitivo pronunciato il primo dicembre di cinquant’anni fa dalla Camera dei deputati.

Paolo VI apprese la notizia mentre si trovava a Sidney, in Australia, a compimento del suo ultimo viaggio intercontinentale in Asia e Oceania, e la Santa Sede, dopo aver ricevuto la comunicazione ufficiale trasmessa dal governo italiano, rispose con una Nota formale di protesta approvata dal Pontefice, mentre proprio dalle colonne di “Avvenire”, il 2 dicembre 1970, venticinque personalità del mondo culturale, politico e intellettuale, tra i quali il “sindaco santo” di Firenze, Giorgio La Pira, lanciavano un appello per chiedere l’abrogazione della legge attraverso un referendum popolare. Il Comitato nazionale per il referendum, presieduto dal giurista Gabrio Lombardi, si attivò nei primi mesi del 1971 arrivando a raccogliere in poco tempo oltre un milione di firme. I vescovi italiani, con una dichiarazione approvata all’unanimità, avevano ribadito, ancor prima dell’approvazione della legge, «le ragioni naturali prima ancora che religiose» della loro contrarietà all’istituzione del divorzio e auspicavano la possibilità di «accertare direttamente il pensiero e la volontà della maggioranza del popolo».

La Cei aveva intanto già costituito un’apposita Commissione episcopale per la famiglia, presieduta da mons. Enrico Nicodemo, impegnata a promuovere una più efficace formazione del laicato su questi temi. Invece, da parte degli esponenti della Democrazia Cristiana vennero esposti dubbi e perplessità sull’iniziativa referendaria: il referendum era giudicato una prova rischiosa, dall’esito incerto e in grado di minare l’unità dei cattolici. I vertici della Dc, guidata dall’allora segretario politico Arnaldo Forlani, si mossero con prudenza, restando tuttavia perplessi su questa ipotesi e preferendo cercare un accordo in Parlamento per giungere a una modifica in senso più restrittivo della legge. Di diverso avviso appariva la dirigenza della Conferenza episcopale italiana che, in accordo con la Santa Sede, pur consapevole dei rischi insiti nella prova referendaria, riteneva difficilmente attuabile un cambiamento della legge per via parlamentare. Del resto, è stato osservato in sede di analisi storica che, mentre era in corso l’iter referendario, il Pontefice e l’episcopato italiano non potevano venire scavalcati da un numero crescente di cattolici nella difesa dei valori familiari. «Allo stato presente delle cose – scriverà Paolo VI in un appunto autografo del novembre 1971 – penso che sia dovere e interesse attenersi alla difficile ma lineare prova del referendum, anche se dubbio ne sia il risultato. È un rischio audace, ma che dà credito a chi lo affronta per lealtà democratica e cristiana e che impegna ogni corrente di sana ispirazione morale a dare fiducia a chi lo affronta con franchezza politica, e obbliga la coscienza cattolica del Paese a ritrovare energia e unità».

Nel frattempo anche la legge di attuazione del referendum abrogativo di iniziativa popolare era stata approvata, nel maggio 1970, grazie al decisivo impegno preso in tal senso dalla Democrazia Cristiana.

Alla fine, l’ipotesi di modificare la legge sul divorzio in Parlamento decadde a causa dell’interruzione anticipata della legislatura, nel febbraio 1972. Quindi l’eventuale referendum slittò ancora e si poté tenere solo due anni dopo, nel maggio 1974. Vi fu però un nutrito gruppo di intellettuali cattolici che si espresse per il No all’abrogazione della legge sul divorzio, impegnandosi pubblicamente per questo scopo. I vescovi italiani all’inizio di maggio diffusero un comunicato in cui veniva richiamato il valore dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale. Paolo VI, che il 9 maggio 1974 inaugurò e benedisse la nuova sede della Conferenza episcopale italiana, appoggiò in quell’occasione il pronunciamento dell’episcopato italiano, esortando i vescovi italiani a vivere e praticare la «carità collegiale». L’esito della consultazione referendaria del 12 maggio 1974 che vide la vittoria del “No” all’abrogazione con la sorprendente percentuale del 59,3% dei votanti, rese evidente la realtà di un Paese sempre più secolarizzato nel quale i cattolici si trovarono, per la prima volta, a rappresentare una minoranza. Il Papa visse con amarezza la sconfitta referendaria che, seppure fosse stata forse presentita, non era comunque immaginata in queste proporzioni e che sembrava avere inferto una rilevante lacerazione all’interno del tessuto ecclesiale, tra i fedeli e la gerarchia ecclesiastica, e dell’intero mondo cattolico.

Il periodo intercorso tra l’approvazione della normativa sul divorzio e il referendum del maggio 1974 è stato oggetto di un ampio dibattito condotto su di un piano culturale, storiografico e politico.

Pure la Democrazia Cristiana fu scossa dalla prova referendaria: l’identità, ma anche l’esistenza del partito cattolico, andavano ormai ripensate e la stessa unità politica dei cattolici – intesa per molto tempo come una necessità indispensabile per salvaguardare la libertà e l’indipendenza del Paese – sembrava quasi aver perso la sua ragion d’essere. Si può ritenere che la crisi che investì il partito negli anni successivi trovò una sua profonda radice in questi avvenimenti dei primi anni Settanta. Sul tema della unità della famiglia e della difesa della vita umana Paolo VI tornò ancora negli anni seguenti, per riaffermare le sue considerazioni «sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario». «Noi le abbiamo espresse – concludeva il Papa nel discorso, quasi un bilancio, pronunciato il 29 giugno 1978, per il XV anniversario del suo pontificato che si sarebbe concluso alcune settimane dopo – mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e pastore della Chiesa universale, e per il bene del genere umano».

(Avvenire)

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