16 Aprile, 2024
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Le grandi compagnie petrolifere cambiano pelle: la corsa alle rinnovabili

È già partita la corsa mondiale per conquistare la leadership delle energie rinnovabili. L’America aspetta le elezioni, la Cina corre

Perfino le compagnie petrolifere scommettono su un futuro senza petrolio.

E’ sintomatico che la BP, la cui sigla sta per British Petroleum, annuncia un investimento da un miliardo di euro in due impianti eolici, acquistando il 50% della società norvegese Equinor che costruisce queste centrali eoliche offshore negli Stati Uniti. Bp vuole moltiplicare per venti la sua capacità eolica entro il 2030, salendo da 2,5 a 50 gigawatt. La sua fretta si spiega col fatto che non è una pioniera, anzi: Total e Royal Dutch Shell l’hanno anticipata di qualche anno. Come l’italiana Eni, che sta spingendo fortemente sulla decarbonizzazione, investendo sulla ricerca per un’energia più pulita.

Le opportunità nelle rinnovabili di conseguenza stanno rincarando e gli ultimi arrivati pagano prezzi maggiori per i loro investimenti.

Intanto, mentre la West Coast degli Stati Uniti è stata nuovamente colpita da siccità e incendi devastanti, esce per la prima volta un rapporto sull’Apocalisse climatica che può abbattersi sui mercati finanziari. La Commodity Futures Trading Commission di Chicago, l’authority che vigila sui mercati delle materie prime, pubblica uno studio intitolato “Managing Climate Risk in the Financial System”. E’ la prima valutazione sistematica da parte di una fonte così autorevole, sui rischi che gli eventi climatici estremi impongono ai settori delle assicurazioni, dei mutui, ai fondi pensione e ad altri investitori istituzionali. Sul fronte tecnologico la stessa emergenza californiana sta spingendo verso nuove soluzioni per la conservazione dell’energia solare ed eolica in reti di batterie ad alta capacità, una risposta al problema della ciclicità delle fonti rinnovabili.

Se la West Coast trema, Wall Street non è immune da rischi. Anche questo contribuisce a orientare le scelte degli investitori: Big Oil deve accelerare la sua transizione perché ogni ritardo comporta un rischio anche finanziario. E’ simbolica l’espulsione di Exxon dall’indice di Borsa Dow Jones. La multinazionale petrolifera era la più antica partecipante a quell’indice, in cui entrò nel 1928 quando si chiamava Standard Oil ed era proprietà della dinastia Rockefeller. Il declino è stato precipitoso, visto che ancora nel 2013 la Exxon era la numero uno per capitalizzazione, con un valore di 415 miliardi di dollari. Al momento della sua uscita dall’indice ne valeva solo 180, neppure un decimo della capitalizzazione di Apple. A questo punto rimane una sola compagnia petrolifera nell’indice Dow Jones, la Chevron. L’intero settore energetico che un decennio fa valeva il 12% del mercato azionario americano oggi ha un peso inferiore al 2,5%.

 

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A Flourish map

La pandemia e il lockdown hanno aggiunto un’urgenza che spinge i grandi attori del business energetico verso nuove scelte.

Quest’anno nei mesi di massima depressione dell’economia globale l’industria petrolifera è stata costretta a trasformare molte coste in giganteschi parcheggi per “tanker”, le superpetroliere cariche di un greggio che nessuno voleva più. I futures a un certo punto sono impazziti e l’opzione sulla consegna futura di greggio valeva “meno” 40 dollari al barile. Tra marzo e maggio la quantità di petrolio letteralmente parcheggiata in mare è triplicata e le scene delle superpetroliere al largo dei grandi porti facevano pensare a una Grande Armada… in disarmo. I prezzi che avevano raggiunto un picco storico di 148 dollari al barile subito prima della recessione del 2008 (contribuendo a quella crisi), sono scesi sotto i 40 dollari malgrado la ripresa dell’attività economica in Cina. Tra gli scenari creati dai lockdown c’è uno smart working che in molte nazioni si avvia a diventare permanente, magari in forme parziali e alternate, ma tali da ridurre i consumi di carburanti per il pendolarismo.

 

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A Flourish map

Nelle scelte strategiche di Big Oil bisogna incorporare la dimensione geopolitica e strategica. L’era delle sette sorelle, multinazionali private, è un ricordo lontano, da tempo ormai molti enti energetici sono gruppi statali strettamente legati ai rispettivi governi: a Pechino, Mosca, Riad, Teheran e altrove. La Cina di tutti questi attori è quella che nel breve termine rimane più dipendente dal consumo di petrolio e altre energie fossili, ma nel lungo termine ha più da guadagnare scommettendo sulla transizione verso le rinnovabili. Di qui una certa schizofrenia, che nasconde contraddizioni reali.

Nell’immediato Xi Jinping di fronte alla brutale frenata nella crescita del primo semestre 2020 ha messo la sordina ai suoi propositi ambientalisti.

Pur senza avere delle elezioni da vincere, Xi Jinping a modo suo ha un vincolo di consenso sociale, e certi tagli alle energie fossili comportano costi che lui preferisce diluire. Nel lungo termine però è chiaro dove punta la Cina: a divincolarsi dal “cappio di Malacca” (l’omonimo Stretto, da cui passa gran parte del suo import petrolifero, è presidiato dalla marina militare americana); e soprattutto a conquistare la leadership mondiale nelle rinnovabili. Il 70% dei pannelli solari sono già made in Cina. Anche nel litio per le batterie delle auto elettriche, così come in altri minerali e terre rare, la Cina sta puntando verso un semi-monopolio o comunque una posizione dominante. I grandi attori energetici di Stato devono assecondare questi piani.

La conversione di Big Oil potrà ricevere una spinta ulteriore in caso di vittoria di Joe Biden all’elezione presidenziale americana.

Gli Stati Uniti sotto Donald Trump sono stati il teatro di una “restaurazione fossile” più apparente che reale, più proclamata nella sfera politica che applicata dagli operatori economici. Da un lato è innegabile che l’America abbia ottenuto una flessibilità e una forza strategica senza precedenti grazie alla sua nuova autosufficienza energetica, che ne ha fatto addirittura un’esportatrice netta di greggio e la più grande produttrice mondiale di gas naturale. Tuttavia alla deregulation di Trump non ha corrisposto un’adesione altrettanto entusiastica da parte dei produttori di energia: il carbone, per esempio, continua il suo declino malgrado gli aiuti della Casa Bianca. Ora Biden nel suo piano “Equitable Clean Energy Future” promette 2.000 miliardi di dollari di investimenti per raggiungere il traguardo di “zero emissioni carboniche nette” entro il 2050 (ma già entro il 2035 per le centrali elettriche). E’ un piano ambizioso visto che oggi vento e sole forniscono il 4% dell’energia consumata dagli Stati Uniti, mentre le fossili sono l’80%. Tuttavia la direzione di marcia è chiara perfino nel caso che Biden non conquisti la Casa Bianca. La California e altri 14 Stati mantengono l’impegno a rispettare gli accordi di Parigi. Con l’eccezione del Texas si tratta degli Stati più ricchi; il mondo delle imprese deve tenerne conto. L’esperto energetico Daniel Yergin nel suo nuovo saggio “The New Map: Energy, Climate and the Clash of Nations”, afferma che la transizione è ben avviata e Big Oil si adegua. “Il mondo delle imprese – sostiene Yergin – incluse certe compagnie petrolifere e utilities elettriche, sta assumendo l’impegno di arrivare a zero emissioni carboniche nette. I più grandi investitori istituzionali come i fondi pensione aggiungono gli obiettivi di Parigi ai criteri con cui valutano gli investimenti, le banche tagliano i finanziamenti alle energie tradizionali e i produttori di auto pianificano un futuro tutto elettrico negli anni ’30 di questo secolo”.

(La Stampa)

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