Seconda giornata di laboratorio (e quinto appuntamento), all’Istituto Alberghiero di Ladispoli, per il Progetto di Educazione al Consumo consapevole “Sapere i sapori: a tavola con gli Etruschi”, promosso dall’A.R.S.I.A.L. (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio).
Questa mattina, oggetti speciali di attenzione nelle cucine dell’Istituto di via Federici, sono stati due piatti storici della tradizione enogastronomica laziale: l’acqua cotta e la scottiglia, che vantano antiche origini etrusche. “Anche oggi il cammino dei nostri studenti alla scoperta delle radici della cucina regionale arriva nei laboratori. – ha sottolineato la Dirigente Scolastica dell’Istituto Superiore “Giuseppe Di Vittorio, Prof.ssa Vincenza La Rosa – Lo scorso 16 maggio gli allievi si erano cimentati con la preparazione del vinum mulsum, oggi tocca a due ricette che ancora oggi possono trovarsi sulle nostre tavole, a testimonianza di un continuum storico e di un legame indissolubile fra il passato e il presente. Questo è il nostro obiettivo: introdurre un nuovo concetto di “filiera alimentare” che includa nel suo significato più profondo non soltanto la conoscenza degli aspetti organolettici e nutrizionali del cibo, ma anche il suo imprescindibile valore storico. Ringrazio il Prof. Rocco Zezza, coordinatore delle attività di oggi, l’Assistente di laboratorio Mauro Ceccobelli e tutti gli organizzatori del Progetto”.
L’acqua cotta – ha spiegato il Prof. Rocco Zezza, Docente di Enogastronomia dell’Istituto Alberghiero di Ladispoli – è un tipico piatto della Maremma toscana e laziale, assai probabilmente già conosciuto dagli Etruschi. Si tratta di una zuppa povera, i cui ingredienti possono variare in base alla stagione e alla disponibilità, ma di base prevede pane raffermo, cipolla, aglio, cicoria, olio d’oliva ed erbe selvatiche di stagione. In alcuni casi si potevano (e si possono) aggiungere un uovo e del formaggio grattugiato.
Anche nel caso della scottiglia, le radici risalirebbero all’epoca etrusca: si tratta di uno stufato, per la cui preparazione devono essere utilizzate diverse varietà di carni. Oggi viene talvolta chiamata anche “cacciucco di terra” o “cacciucco di carne etrusco”.
E, come sempre, la storia sembra dare lezioni, stavolta a chi pensa che la cosiddetta “cucina di recupero” rappresenti l’ultima moda della gastronomia contemporanea. Pare, infatti, che le origini del piatto fossero legate alla necessità di utilizzare le parti meno nobili degli animali macellati e il nome deriverebbe dal fatto che i diversi pezzi di carne erano “scottati” insieme, con un po’ di olio, in un tegame di coccio (la preparazione, tuttavia, è ben più lunga e articolata).
Ma il banchetto greco-romano ed etrusco si apriva, come è noto, con l’uovo, vivanda dalla complessa ed antichissima simbologia: non semplice alimento, ma vero e proprio “scrigno cosmico”, che tutto contiene nella sua forma perfetta. Privo di angoli e dunque privo di inizio e di fine, l’uovo, dal Neolitico in poi (attraversando, ovviamente il Cristianesimo) ha rappresentato da sempre l’eternità, la vita intatta e segreta ancora racchiusa nella mente divina. Ancora una volta, dunque, il percorso di scoperta delle origini antiche dell’enogastronomia laziale, cominciato ad aprile all’Istituto Alberghiero di Ladispoli, si è rivelato un itinerario verso il ‘sacro’: dimensione forse lontana dalla frenesia dell’età contemporanea, votata ad un consumo frettoloso e inconsapevole del cibo e del vino, ma ben presente agli antichi (anche agli antichi Etruschi), così fortemente impregnati di religiosità e di pensiero simbolico.
“In molte tombe etrusche del VII-VI sec. a.C. – aveva ricordato nel primo incontro Fabrizio Del Re, Direttore della Rivista Il Punto Magazine – sono stati ritrovati gusci intatti di uova che presentano un piccolo foro. Poiché queste uova erano state svuotate proprio attraverso questo foro, si ritiene non avessero un significato di dono votivo, ma fungessero da “scrigno”, contenitore simbolico della vita nuova che sopraggiunge dopo la morte”.
Uova, acqua cotta, scottiglia. “E’ facile concludere – ha osservato il Prof. Zezza al termine della giornata – che un elemento di continuità caratterizza la cucina della Tuscia dalle sue origini etrusche fino ad oggi: una forte impronta rurale e popolare, che è presente in realtà nell’intera cultura gastronomica italiana e determina l’originalità del suo contributo alla cucina europea”. Senza voler infatti negare il carattere ‘cortigiano’ e cittadino che si aggiungerà nei secoli del Medioevo, è innegabile – lo sosteneva anche lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari – come la gastronomia italiana abbia avuto sempre un forte “retrogusto” rurale. La presenza di ricette e prodotti derivati dall’esperienza comune, in particolare la valorizzazione gastronomica delle verdure rimane un elemento di straordinaria rilevanza: punto di forza ancora oggi evidente della cultura della Tuscia, ma più in generale dell’Italia, che rappresenta il contributo più originale dato dal nostro Paese alla costruzione del patrimonio culinario europeo
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