28 Aprile, 2024
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Non lasciamo che il cibo divori la Terra

«L’uomo è ciò che mangia» scrisse il filosofo Ludwig Feuerbach nel 1850. Nessuno avrebbe immaginato che l’espressione, allora considerata oltraggiosa, avrebbe incarnato oggi una dimensione peculiare dello spirito del tempo nel Nord del mondo, con una bulimia mediatica che ci assedia a ogni ora del giorno e della notte da parte di chef, dietologi, medici, gente di spettacolo, influencer, e chi più ne ha più ne metta.

Peraltro il cibo che consumiamo influisce sul nostro benessere, e dopo i cenoni natalizi qualche riflessione può essere utile: per la nostra salute e per quella della Terra, cui la nostra è connessa.

Agricoltura e allevamento nascono circa diecimila anni fa, gli Homo Sapiens erano già presenti da svariate decine di migliaia d’anni. Non è improbabile che siano state le donne, stanche di una vita nomade che mal si adattava alle funzioni riproduttive, a carpire il segreto di semina, crescita e raccolta, le cui tempistiche erano in buon accordo con quelle della gravidanza. L’agricoltura non nasce per necessità di cibo: con una popolazione mondiale che non superava qualche milione il cibo c’era, e in abbondanza; l’agricoltura e l’allevamento nascono per dar vita alle prime comunità stanziali, per organizzare meglio le attività comunitarie di cura.

Con l’invenzione dell’aratro, circa 5.500 anni fa, si fece un primo grande salto di qualità, ma solo con le innovazioni tecnologiche e gestionali di fine del XVIII secolo si ruppe il ritmo millenario delle carestie favorendo la crescita della popolazione, che a inizio ottocento si stima in circa un miliardo.

Con la società industriale e urbana si richiede un ulteriore sforzo produttivo all’agricoltura per soddisfare una popolazione che aumenta in modo esponenziale. A metà del XX secolo si ha la “Rivoluzione verde”: grazie a nuove varietà ibride, a fertilizzanti e pesticidi avviene uno spettacolare aumento delle produzioni agricole delle principali specie di interesse alimentare.

Il resto è storia recente, con le immense distese di monocolture intensive e di pascoli che assediano i polmoni verdi della Terra, primi fra tutti l’Amazzonia; gli OGM (organismi geneticamente modificati); gli allevamenti intensivi; la carne sintetica; una popolazione mondiale che supera gli otto miliardi. Senza entrare nelle diatribe su OGM e carne sintetica, vale la pena di sottolineare, accanto ai benefici della Rivoluzione verde, le criticità delle attuali pratiche agricole e di allevamento: l’uso crescente di fertilizzanti e pesticidi inquina, il che insieme all’eccessivo sfruttamento delle falde acquifere minaccia vaste estensioni di territorio desertificando; l’abbandono – fino alla scomparsa – di numerose varietà di piante e di sistemi di agricoltura tradizionali sta comportando una grave perdita di biodiversità; negli allevamenti intensivi gli animali sono nutriti con mangimi prodotti in colture intensive, inoltre l’uso di antibiotici e ormoni, regolamentato in Europa, ha regole diverse in altri Paesi: ad esempio in USA e in Canada è consentito l’uso di ormoni per stimolare la crescita; bisogna infine menzionare le situazioni di povertà di moltitudini di contadini che sconfinano spesso in schiavitù (da noi il caporalato).

Tre multinazionali controllano circa 75% del mercato globale di fitofarmaci e il 65% di quello delle sementi, che devono essere acquistate annualmente. Agricoltura e allevamento emettono il 35% dei gas serra, consumano il 38% dei territori e il 70% dell’acqua che si utilizza. In Europa tra il 60% e il 70% dei suoli è degradato, nella pianura padana la situazione è peggiore; a livello globale la percentuale è al 52%.

Tutto questo per un cibo omologato, che oltre a divorare l’ambiente e i contadini danneggia la nostra salute: i risultati sono, tra gli altri, tassi di obesità crescenti anche in Italia, alla faccia della dieta mediterranea.

C’è n’è più che a sufficienza per invocare un radicale cambio di rotta: la sfida è tra le lobby multinazionali che premono per più colture accelerate e innaturali – quando oltre il 30% del cibo viene sprecato, il che significa che il cibo prodotto basterebbe per oltre dieci miliardi di persone – e la crescente consapevolezza che solo pratiche agricole rispettose dell’ambiente e allevamenti rispettosi del benessere degli animali possono favorire un’alimentazione sana. In tutto questo il cambiamento climatico non aiuta: è necessaria più cooperazione internazionale, ma attualmente prevale la frammentazione geopolitica.

Non resta che insistere per una cittadinanza attiva e consapevole delle buone pratiche: una attenta selezione di ciò che mangiamo; preferire le proteine vegetali a quelle animali soprattutto con l’avanzare dell’età, prevenendo l’insorgenza di patologie cardiovascolari, diabete, obesità; il sostegno degli agricoltori del territorio che rispettano i cicli della natura; favorire la filiera corta e i prodotti a km zero. Questo, oltre a far bene a noi, significa minori consumi energetici e minori emissioni di inquinanti e di gas serra. La partecipazione a Gruppi di Acquisto Solidale svolge un ruolo fondamentale in tutto questo, e può costituire uno strumento efficace per orientare i mercati.
Mario Carmelo Cirillo

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