29 Aprile, 2024
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Matteo Garrone: migranti tra fiaba e sociale da “Terra di mezzo” a “Io capitano”

Matteo Garrone è stato premiato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con il Leone d’Argento per la Miglior regia per Io capitano, il suo ultimo lavoro che arriva dopo quattro anni dal precedente (Pinocchio). Io capitano è un’opera tra epica e fiaba dall’ambientazione contemporanea in cui Seydou e Moussa, i due protagonisti, lasciano Dakar per raggiungere l’Europa attraverso le insidie mortali del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia, le torture, lo sfruttamento del lavoro e i pericoli del mare senza mai perdere i valori interiori e la dignità. C’è una evocazione dei temi del suo primo lavoro, la trilogia di impianto documentaristico Terra di mezzo (1996) composta dall’episodio che dà il titolo a tutta l’opera, Ospiti ed Estate romana, che riesce a realizzare grazie al premio in denaro vinto al Sacher film festival con Silhouette (1996). Temi cari a Garrone come la diversità di condizione, il riscatto, l’inclusione: dall’integrazione di allora (al tempo della globalizzazione) ne Terra di mezzo, a oggi ne Io capitano (ai tempi dell’umanità 2.0); parliamo di questo nella Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che pone l’attenzione sul tema liberi di scegliere se migrare o restare, a cui ha fatto riferimento anche Papa Francesco nell’Angelus odierno dicendo: “Migrare dovrebbe essere una scelta libera, mai l’unica possibile. Il diritto di migrare, infatti oggi, per molti è diventato un obbligo mentre dovrebbe esistere un diritto a non migrare per rimanere nella propria terra […] per poter vivere una vita degna nella società in cui ci si trova […]”.

 Garrone ne Io capitano fa un controcampo rispetto alla prospettiva di sguardo dall’Europa: sposta in Africa l’inquadratura della camera e la prospettiva del punto di vista. Racconta una storia che coinvolge, toccante, cruda in molte sequenze che unisce la profonda maestria della regia di Garrone con una narrazione che, spesso, è del reportage, del documentario. I protagonisti attraversano il mare e il deserto sabbioso, (s)confinanti paesaggi che evocano lo spazio del genere Western in tutta la loro simbologia. Ritorna – ancora una volta in una perfetta coincidenza e con il punto di vista del controcampo – il topos culturale della spiaggia nel quale si rispecchiano le caratteristiche identitarie, sociali e antropologiche di un popolo che è fil rouge in L’ultima spiaggia – rive e derive del cinema italiano di Christian Uva edito da Marsilio, testo che percorre le spiagge del cinema italiano – dai Cinegiornali del regime fascista ad oggi – facendoci sorprendentemente vedere la coincidenza di ciò che sulla sabbia è avvenuto con ciò che è successo nel nostro paese.

Matteo Garrone con il suo cinema ha attraversato tutti i generi a cominciare da l’imbalsamatore (2002), un neo-noir con una spiccata condizione Freudiana di perturbante data dai personaggi ai quali appartiene anche qualcosa di fortemente animalesco, con cui -peraltro – inizia una stagione meno autarchica e una produzione più organizzata nel suo sistema, la scrittura è più presente. Garrone ricorre alla struttura della fiaba, sempre, che verrà esplicitamente manifestata in Tale of Tales (Racconto dei racconti, 2015, ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile) e Pinocchio (2019).  Le sue opere, nonostante attraversino tutti i generi e la fiaba sia un leitmotiv, sono sempre pregne di qualcosa di perturbante che accompagna tutto il suo cinema come ci racconta Nicoletta Marini-Maio nel suo saggio Primo amore in Matteo Garrone a cura di Christian Uva (casa editrice Marsilio) su l’omonimo film del 2004.

Marzia Onorato
Redattrice L’agone

 

 

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