Quando il dolore non ha parole, viene scritto sul corpo
C’è un momento nell’adolescenza in cui il linguaggio verbale non basta più. Non perché manchino le parole, ma perché le parole sembrano non riuscire a contenere l’intensità del caos interno. Ed è allora che alcuni ragazzi iniziano a scrivere sulla pelle: tagliarsi, ferirsi, incidere il proprio corpo diventa un modo – drammatico, silenzioso, disperatamente vitale – per dare forma a un sentire altrimenti indicibile. In psicoanalisi, più che chiederci “Perché lo fai?”, ci chiediamo: “Cosa stai cercando di dire?”
In adolescenza, il corpo non è mai neutro. È il primo spazio dove prende forma l’identità, il primo “oggetto” che parla dell’Io e al tempo stesso dell’altro. Per molti adolescenti, il corpo diventa un palcoscenico in cui si recita una scena interna dolorosa, fatta di insicurezze, smarrimenti, vuoti e bisogni d’amore non nominati. Il gesto autolesivo non è solo un agito, ma una forma primitiva di linguaggio. Una lingua fatta di pelle, sangue e silenzio. Spesso accade che i genitori non comprendano e reagiscano con paura, rabbia o senso di colpa. Ma per chi si taglia, quel gesto non è fine a se stesso: è una mappa, un messaggio, una richiesta di riconoscimento che sfugge alla logica lineare. Chi si taglia non vuole necessariamente morire. Vuole “sentirsi”, uscire da uno stato di anestesia emotiva o contenere un’esplosione interiore. Eppure, per un genitore, scoprire i segni sul corpo del proprio figlio/a è una frattura profonda. Ci si può sentire traditi, impotenti ed esclusi. Ma la verità è che, spesso, quei segni sono un invito alla relazione. Un invito doloroso, confuso, ma reale. È proprio qui che può nascere un’opportunità. Guardare quel gesto come una metafora estrema del bisogno di essere visti, non per i successi scolastici o le buone maniere, ma per quel nucleo fragile, rabbioso e confuso che ogni adolescente porta dentro.
L’autolesionismo non è un “problema di pochi”. È una piaga silenziosa che attraversa le scuole, le chat e le camere da letto. È una forma di comunicazione collettiva del disagio, un “codice” che si trasmette spesso per imitazione, ma si radica in ferite autentiche e soggettive. Come società, non possiamo permetterci di ignorarlo. C’è un’urgenza educativa e affettiva, un bisogno di creare spazi in cui il dolore possa essere pensato, condiviso e trasformato in qualcosa che non distrugga, ma costruisca. Servono adulti non perfetti, ma presenti. Psicologi capaci di ascoltare i “sensi grezzi” del taglio. Insegnanti che vedano oltre il comportamento. Genitori che sappiano chiedere: “Cosa stai cercando di dirmi con questo gesto?”
Non bisogna fermarsi al gesto. Bisogna chiedersi quale emozione ci sia sotto: rabbia? Tristezza? Solitudine? Il taglio è solo la punta dell’iceberg, sotto c’è un’inconscia richiesta di senso. La fiducia non si impone, si costruisce. Ogni volta che un ragazzo si apre, non va giudicato, ma ringraziato, accolto e contenuto. Ogni volta che una parola sostituisce un taglio, si compie un atto rivoluzionario di crescita.
Paradossalmente, tagliarsi può essere un gesto di sopravvivenza, un modo per non cadere in una dissociazione ancora più pericolosa. Ma può anche diventare, nella relazione terapeutica e familiare, una bussola preziosa: ci orienta verso le zone più oscure dell’identità, le parti che hanno bisogno di essere accolte, simbolizzate e infine trasformate. Il compito di adulti e terapeuti non è “far smettere” il gesto, ma creare le condizioni perché non sia più necessario.
Dott. Gianluca Mineo – Psicologo e Psicoterapeuta