28 Marzo, 2024
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Hong Kong ai “patrioti”. Ma tre quarti degli elettori ignora il voto farsa

In campo solo candidati pro-Pechino. E la governatrice Carrie Lam non si perde d’animo: “Bassa affluenza dimostra la soddisfazione generale”

 

A Pechino avevano preparato tutto per bene ormai da tempo, per essere sicuri che queste nuove elezioni locali a Hong Kong non fossero una replica della figuraccia inferta al Pcc – il Partito Comunista al potere in Cina da oltre settant’anni – quando, dopo una lunga stagione di proteste e scontri nelle piazze, i candidati democratici anti-comunisti si erano aggiudicati oltre il 90% dei seggi. Così stavolta la farsa elettorale è andata in scena senza intoppi, dopo l’azzeramento di ogni forma di opposizione democratica – i politici e gli attivisti, tutti quanti chiusi in carcere oppure fuggiti all’estero – e soprattutto dopo il varo di una nuova legge elettorale che consente soltanto ai “patrioti” – ovvero ai candidati la cui “fede” comunista e pro-Pechino sia stata attentamente e preventivamente verificata dalle autorità centrali – la possibilità di candidarsi. Ma mentre Il Partito Comunista esulta a Pechino per la vittoria delle “forze patriottiche” – come ha scritto con l’abituale sfoggio di retorica l’Agenzia di Stampa Statale Xinuha – a rovinargli la festa ci hanno pensato tre quarti degli elettori nell’ex colonia britannica, che hanno deciso di ignorare la farsa elettorale, disertando le urne ed esprimendo così la loro silenziosa protesta nei confronti di un copione già scritto da tempo.

Sui 4 milioni e mezzo di hongkonghesi aventi diritto al voto, infatti, soltanto il 30 per cento si sono recati ai seggi: un vero e proprio crollo in picchiata, rispetto al 58% registrato alle elezioni del 2016. Per correre alla conquista di uno dei 90 seggi in palio, poi, si sono presentati meno di 160 candidati (ennesimo crollo rispetto ai 289 delle elezioni del 2016) e di questi meno di una decina ha trovato il “coraggio” di dichiararsi simpatizzante per il movimento democratico di opposizione (peraltro, come dicevamo, ormai virtualmente azzerato dal governo centrale). Ma anche la loro “coraggiosa” presa di posizione è suonata assai stonata, visto che, per essere ammessi alla competizione elettorale, avevano dovuto obbligatoriamente giurare anche loro fedeltà alla Cina e al suo sistema politico comunista, dopo essersi sottoposti – come tutti i candidati – ad un attento e approfondito vaglio del loro “patriottismo” ad opera dell’apposita commissione pre-elettorale. Ce n’è abbastanza per parlare, e a ragione, di “Morte della Democrazia” a Hong Kong. Non la pensa così Carrie Lam – la già contestatissima (al tempo delle proteste oceaniche) – governatrice di Hong Kong, che senza battere ciglio, ha dichiarato che “il basso numero di votanti è una dimostrazione della soddisfazione generale della gente nei confronti del governo”. In molti hanno pensato che stesse scherzando, ma era seria.

Il nuovo meccanismo elettorale “migliorativo” pensato – e a suo tempo imposto – da Pechino all’ex colonia non lascia del resto alcuno spazio per la democrazia. Soltanto 20 dei 90 seggi del Legislative Council sono effettivamente decisi dal voto popolare alle urne; 40 vengono invece decisi da una Commissione elettorale costituita da meno di 1.500 “saggi” devoti al Partito ed i 30 rimanenti vengono decretati dalle corporazioni degli affari e del commercio scelte sempre da Pechino le quali – ovviamente – non hanno nessuna intenzione, e soprattutto nessunissima convenienza, a non compiacere il Partito Comunista e il Potere Centrale della Madrepatria. Come si diceva, una farsa. Che non si è limitata alle dichiarazioni-shock di Carrie Lam ma è proseguita con le dichiarazioni trionfalistiche del Governo Centrale, che sempre attraverso il megafono della Xinuha hanno parlato di “vittoria della democrazia”, riferendosi all’altissima partecipazione dei 1448 membri della Commissione elettorale che ha deciso l’elezione dei 40 deputati… Non solo la morte della democrazia, dunque, ma anche il trionfo dell’assurdo.

Ma, incurante di tutto, Il Partito Comunista al potere ha insistito, pubblicando oggi addirittura un articolato documento intitolato “Il progresso democratico di Hong Kong nell’ambito di un paese, due sistemi”. Si tratta del secondo “libro bianco” di questo tipo riguardante Hong Kong, dal 2014. “Il Governo”- si legge nel rapporto – “ha messo in piedi una solida difesa della sua strategia di sviluppo della “democrazia con caratteristiche cinesi a Hong Kong”, attraverso i “patrioti” incaricati del governo della città”. “Il sistema elettorale migliorato”, continua il documento, “assicura il solido sviluppo a lungo termine della democrazia a Hong Kong e favorisce condizioni favorevoli necessarie alla futura elezione a suffragio universale dell’amministratore delegato e del Consiglio legislativo”.

Il documento è stato reso pubblico dall’Ufficio informazioni del Consiglio di Stato, ed è stato preceduto, due settimane fa, da un altro rapporto intitolato “China: Democracy that Works”: entrambi i documenti si iscrivono nell’ambito del più ampio sforzo propagandistico, portato avanti da Pechino, con il dichiarato fine di promuovere il sistema di governance del Paese spacciandolo come più rappresentativo ed efficace del modello statunitense. Nel documento pubblicato oggi, si precisa che la città sta entrando in una nuova fase di “ripristino dell’ordine” dopo l’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale lo scorso anno e la revisione del sistema elettorale all’inizio di quest’anno.

Ma il nuovo “Libro Bianco” va oltre l’esaltazione di una asserita “democrazia socialista con caratteristiche cinesi” a Hong Kong, e – forse per la prima volta in modo così dettagliato e, soprattutto, ufficiale – nelle sue sei sezioni affronta ad ampio raggio la visione che della storia dell’ex colonia inglese ha il Partito unico al governo in Cina. Le prime due sezioni espongono dettagliatamente la tesi governativa, secondo la quale non c’era democrazia a Hong Kong sotto il dominio coloniale britannico e solo con il ritorno della città sotto la sovranità cinese, nel 1997, venne finalmente inaugurata una “nuova era per la democrazia”: “La Gran Bretagna ha esercitato un tipico dominio coloniale su Hong Kong” si legge, “ma poco prima della restituzione della città ha cercato precipitosamente di accelerare lo sviluppo di istituzioni democratiche come parte del tentativo britannico di dare un’immagine “onorevole” del loro ritiro dalla città, cercando di camuffarlo sotto una patina di “democrazia rappresentativa in stile britannico.”

Il terzo e il quarto capitolo sostengono poi la tesi per cui il governo centrale di Pechino era attivamente impegnato nello sviluppo della democrazia a Hong Kong, ma gli “agitatori anti-cinesi” hanno minato e interrotto i piani del Partito per la città. “La democrazia a Hong Kong” insiste il libro bianco, “è stata trattenuta e ostacolata da coloro i quali hanno cercato di rovesciare l’ordine costituzionale e destabilizzare Hong Kong”. “Le autorità centrali hanno l’ultima parola nel determinare il funzionamento della democrazia a Hong Kong, è questa [la democrazia, ndr.] è una questione di sovranità e sicurezza nazionale… Solo sotto la guida centrale del Partito Hong Kong può aspettarsi che la sua democrazia faccia progressi salutari (…) perché – conclude il documento – “non esiste un unico insieme di criteri per la democrazia e nessun modello unico di democrazia che sia universalmente accettabile. La democrazia funziona solo quando si adatta alle condizioni reali e risolve i problemi reali”.

Intanto, la situazione reale della democrazia a Hong Kong è la seguente: questo 2021 che sta per terminare, si è aperto con una retata della Polizia, che ha arrestato ben 47 tra gli esponenti più in vista dell’opposizione democratica, colpevoli, fra l’altro di essere dei “sovversivi” per avere organizzato lo schieramento democratico alle primarie, intralciando l’azione del governo. In seguito, chiunque avesse avuto a che fare – anche marginalmente – con i movimenti di opposizione o soltanto avesse collaborato all’organizzazione delle proteste, è finito in galera oppure, se ha fatto in tempo, ha scelto l’autoesilio, fuggendo all’estero. La libertà di stampa è ormai radicalmente limitata, e quella di manifestare è stata, da tempo, azzerata.

Ma anche chi non aveva avuto nessun ruolo – anche minimo – nell’opposizione anti Pechino e ha scelto di mantenere un profilo basso, è finito in carcere. Come le dieci persone arrestate negli ultimi giorni con l’accusa di avere consigliato ad amici o parenti di non andare a votare a queste ultime elezioni-farsa. Sono stati accusati e incarcerati – con condanne fino a tre anni di galera – per “incitazione all’assenteismo” e “ostacolo all’ordinato svolgimento delle elezioni”.

Nella “democratica” Hong Kong “con caratteristiche cinesi”, infatti, è un reato anche astenersi.

(Huffpost)

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