29 Marzo, 2024
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Pensioni: stangata in arrivo con il ricalcolo contributivo

Una riforma previdenziale tutta basata solo sui contributi versati (addio retributivo) produrrebbe un taglio dell’assegno importante e, secondo i sindacati, iniquo.

Come stanno le cose e cosa dobbiamo aspettarci dal confronto tra governo e parti sociali in vista del superamento della legge Fornero dal 2023

Il ricalcolo contributivo della pensione è una delle ipotesi sul tavolo per la riforma previdenziale. Secondo un vasto gruppo di commentatori ed esperti che si sono espressi nel dibattito in corso sulla riforma previdenziale, produrrebbe un taglio importante e iniquo, che potrebbe arrivare a superare il 30% dell’assegno lordo. E’ quel che conferma l’Analisi dell’Osservatorio Previdenza della Cgil nazionale e della Fondazione Di Vittorio, in cui si prendono a riferimento diversi casi, tutti ‘misti’, cioè con un’anzianità contributiva inferiore ai 18 anni di contribuzione al 31.12.1995.

Riforma pensioni: cosa cambia con il ricalcolo contributivo

Facciamo qualche esempio. Secondo il responsabile Politiche previdenziali della Cgil nazionale Ezio Cigna, “per una retribuzione di 20 mila euro lorde e con 30 anni di contribuzione complessiva, con una carriera lineare e 15 anni di contribuzione al 31.12.1995, la pensione lorda mensile passerebbe da 870 euro con il sistema misto a 674 euro con il ricalcolo contributivo, un taglio pari al 22,6%. Una differenza che in questo caso per un soggetto che anticipa a 64 anni l’uscita con il ricalcolo contributivo peserebbe per 19.344 euro di pensione in meno nell’intero periodo di pensionamento”. “Il metodo di ricalcolo non è equo – sostiene Cigna – e determinerebbe un vantaggio per lo Stato, imponendo un onere irragionevole al lavoratore nel caso di anticipo della pensione, come oggi già avviene con Opzione Donna”.

Le simulazioni effettuate dicono che “non cambia molto se si prende a riferimento un reddito superiore a 30.000 euro lorde alla cessazione, con 38 anni di contribuzione. La pensione lorda da 1.605 euro passerebbe a 1.376 euro, una differenza di 229 euro, pari al 14,2% sul totale della pensione, con un’incidenza pari al 32,7% sulla quota retributiva. In questo caso la forbice del mancato incasso a 82 anni (attesa di vita media) è pari a 8.151 euro”.

Per il segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli “è importante realizzare un sistema previdenziale più flessibile che consenta alle persone di accedere in anticipo alla pensione rispetto ai 67 anni attualmente previsti, ma senza imporre condizioni vessatorie come già avviene con Opzione Donna. Dopo mesi di immobilismo sui temi previdenziali – sostiene – la convocazione delle organizzazioni sindacali da parte del Governo per il prossimo lunedì è un fatto positivo, certamente frutto della nostra mobilitazione messa in campo in questi mesi”. “L’incontro – conclude il dirigente sindacale – sarà l’occasione per capire se effettivamente c’è la volontà da parte del Governo di avviare un confronto vero con il sindacato, e non un semplice ascolto, con l’obiettivo di superare le rigidità della legge Fornero e ripensare un sistema previdenziale basato su elementi di equità e solidarietà, come sosteniamo da tempo con la piattaforma unitaria”.

Un’altra elaborazione recente evidenzia un taglio netto degli assegni di circa il 37% rispetto al vecchio regime retributivo. Ci sono dati recenti di uno studio nella provincia di Verona secondo cui sono già 12.825 (circa il 6% del totale delle pensioni da lavoro) le pensioni pagate con il sistema contributivo “puro”, cioè calcolate sulla base dei soli contributi versati. La grande maggioranza di esse (9.512 pensioni, con importi medi di appena 228,68 euro) appartengono al fondo dei lavoratori parasubordinati, una categoria spuria (né dipendenti né autonomi) nata nel 1995 con l’introduzione della gestione separata dell’Inps.

Domani riparte il confronto governo-parti sociali. Da tempo i sindacati insistono su un’età precisa: 62 anni. Oppure su Quota 41. In ballo però c’è un tema molto più ampio ed evidentemente spinoso: col contributivo puro andare in pensione potrebbe voler dire avere assegni sotto la soglia di povertà.

In pensione a 62 anni o con Quota 41

Le parti sociali da mesi ritengono che la soluzione per superare la legge Fornero sia una flessibilità più diffusa di accesso alla pensione intorno a 62 anni, anche utilizzando le categorie dei lavori gravosi individuate dalla Commissione istituzionale. Ma occorre anche ragionare su come mandare in pensione i lavoratori di un lunghissimo elenco di categorie di lavoratori con 41 anni di contribuzione.

Le principali modifiche per il 2022 riguardano  Quota 102, un ulteriore allargamento alle donne e a nuove mansioni gravose del perimetro dell’Anticipo pensionistico sociale (Ape sociale) e di quello per le uscite anticipate dei dipendenti delle Pmi, che al momento è limitato a quelle in crisi. Quota 102 dà la possibilità di uscire dal lavoro con almeno 64 anni d’età e 38 di contribuzione. Opzione donna è confermata tale e quale dal 1 gennaio e in futuro potrebbe diventare strutturale. Sulla “salvaguardia pensionistica” delle lavoratrici ci sarebbe una maggioranza trasversale.

Ma si deve guardare già ora al futuro e il problema non è di poco conto, perché per esplicita intenzione del premier Draghi, dal 2023 si torna al percorso contributivo e questo per le nuove generazioni, in molti casi, vorrà dire un assegno basso e ad un’età molto avanzata. Dal 2032 tutti i nuovi pensionati riceveranno assegni basati sul contributivo puro a meno di interventi decisi e impattanti, quindi prenderanno solo quanto avranno versato negli anni, avendo cominciato a lavorare dopo il 1996 cioè dall’entrata in vigore della riforma Dini.

Ricordiamo che si intende con metodo retributivo il calcolo dell’assegno pensionistico sulla base delle ultime retribuzioni, mentre con metodo contributivo si tiene in considerazione l’ammontare dei contributi effettivamente versati.

Le stime più pessimistiche riportano che per il 60% di chi è entrato nel mondo del lavoro a metà degli anni ‘90, l’importo sarà sotto la soglia di povertà considerando anche che non è prevista un’integrazione al minimo. La riforma delle pensioni Fornero del 2011 ha già predisposto numerose modifiche al sistema previdenziale italiano, segnando il passaggio definitivo dal metodo retributivo a quello contributivo. Con la Fornero si estese il calcolo contributivo anche a chi era stato “graziato” dalla Riforma Dini, ovvero a tutti quelli che, al 31 dicembre 1995, avevano almeno 18 anni di anzianità di lavoro. Dal 1° gennaio 2012 il metodo contributivo è diventato l’unico metodo di calcolo per l’assegno pensionistico.

L’incontro di domani con Draghi per la Cgil sarà l’occasione di capire se c’è la volontà di avviare un confronto vero con il sindacato. Strada in salita.

Pensioni: le novità per l’Ape sociale ai lavoratori edili nel 2022

In arrivo alcuni dei ritocchi parlamentari al disegno di legge di bilancio: andranno a toccare il mini-pacchetto previdenza. Ci sarà qualche sorpresa dell’ultima ora, a partire dalla soglia contributiva più bassa per agevolare l’accesso all’Ape sociale dei lavoratori edili.

Gli emendamenti originari del Pd e di altre forze politiche – riepiloga il Sole 24 Ore –  puntavano a far scendere il requisito da 36 a 30 anni, come per altro indicato dalla Commissione tecnica sui lavori gravosi, presieduta da Cesare Damiano: “Dopo le ultime riunioni tra maggioranza e governo si è invece deciso di non abbassare la soglia oltre i 32 anni. Che, a meno di sorprese dell’ultima ora, diventerà il limite contributivo necessario, insieme ai 63 anni d’età, per gli edili che intendono utilizzare l’Anticipo pensionistico sociale”, con oneri interamente a carico delle casse dello Stato.

(RomaToday)

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