28 Marzo, 2024
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Famiglia. Poche nascite e tanta evasione. I veri problemi del nostro Fisco

Il declino demografico, così come il «tax gap», hanno un legame molto stretto con la struttura di aliquote e bonus fiscali. Una riforma per garantire uno sviluppo sostenibile

Un’imposta, un bonus o una riforma del fisco vanno giudicati in base all’effetto che producono. Per fare un esempio, se il Fisco rende particolarmente vantaggiose le ristrutturazioni degli immobili, si avrà un impatto positivo sui bilanci familiari di chi più può spendere per i lavori in casa e sull’economia in generale. Se invece lo Stato rendesse totalmente detassabili le spese per corsi di musica classica, il Pil forse crescerebbe meno, ma ci sarebbero filarmoniche in ogni città e probabilmente più violinisti che muratori.

Due emergenze. Sono scelte, insomma, e sta alla politica orientare i tecnici perché sappiano trovare il giusto equilibrio per assicurare che in un Paese ci sia chi costruisce i teatri, ma anche chi li riempie e li fa vivere. O chi costruisce asili, ma anche chi farà in modo che non restino vuoti. In questo senso, può essere utile fare il ragionamento inverso e ricorrere al metodo induttivo per capire come correggere le norme guardando a cosa vorremmo cambiare perché riteniamo non funzioni. Ora, se si pensa alle “emergenze” che caratterizzano l’Italia nel contesto europeo, e che possono avere un qualche collegamento con il sistema fiscale, due in particolare vengono alla mente: l’emergenza demografica e l’elevato tasso di evasione.

Demografia fragile. L’Italia sta attraversando una crisi della popolazione che non ha paragoni nel mondo a causa dello squilibrio nel peso tra le generazioni che si è creato dopo decenni di bassa natalità. Quest’anno le nascite scenderanno sotto quota 400.000 (nel 1964 erano 1 milione) ma non è più nemmeno questo il problema di un Paese in cui i giovani e la popolazione in età da lavoro si sta riducendo così tanto che già ora è possibile capire cosa questo significhi per il mercato del lavoro, dove le imprese faticano a trovare manodopera e talenti, o per il sistema sociale, nel momento in cui viene a mancare la generazione in grado di pagare le tasse per mantenere in piedi le pensioni, la sanità, i servizi pubblici. L’aspetto economico non è l’unico motore della natalità, ma un Paese che si distingue per un sistema fiscale che non ha mai contemplato una vera attenzione alla famiglia, e allo stesso tempo sperimenta un declino demografico tale da essere un caso di studio internazionale, forse è bene che si ponga il problema. E pensi a come risolverlo.

Andrebbe trovato il giusto equilibrio per assicurare che in un Paese ci sia chi costruisce i teatri, ma anche chi li riempie e li fa vivere. O chi costruisce asili, ma anche chi farà in modo che non restino vuoti

Non solo Assegno unico. La riforma dell’Assegno unico e universale ha provato a colmare un vuoto, estendendo un benefit economico a cittadini finora trascurati dai benefici, come i disoccupati, gli incapienti e i lavoratori autonomi. Ma resta un contributo il cui importo da solo non inciderà molto nella scelta che porta alla realizzazione del desiderio di famiglia: 50-100 euro al mese, per i redditi Isee dai 30.000 euro in su, quando un figlio ne costa 700 (tinyurl.com/settec), sono giusto il primo passo di un cammino ancora tutto da fare. I principali sistemi fiscali nel mondo sviluppato prevedono per i genitori, oltre ad un assegno veramente universale, una tassazione che tiene conto in modo significativo e per tutti dei carichi familiari. Anche la Costituzione italiana suggerisce di agire in questo modo, all’articolo 53, quando dice che ciascuno è tenuto a «concorrere alle spese pubbliche» in ragione della propria «capacità contributiva». Prima della riforma dell’Assegno unico il compito di garantire l’“equità orizzontale” era affidato alle (modeste) detrazioni per i figli a carico; ora che sono state incorporare nell’assegno questa funzione è venuta meno. L’orientamento della maggioranza è di alleggerire un po’ per tutti il carico fiscale, rimodulando le aliquote, ma senza distinguere tra famiglie con figli, coppie senza o singoli.

Il nodo dell’evasione. Un sistema fiscale che non si pone obiettivi di sostenibilità nel rapporto tra le generazioni, difficilmente riesce ad essere anche un sistema efficiente. Il capitolo problematico dell’evasione fiscale sembra esserne una conferma. Negli ultimi anni il livello di somme nascoste al fisco è andato diminuendo, grazie all’introduzione di misure come la fattura elettronica o lo split payment, tuttavia, l’ultima relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, allegata alla Nadef, indica che il tax gap in Italia ammonta ancora a circa 103 miliardi di euro, e che la propensione all’evasione è attorno al 19,3%. Come rilevato in un intervento dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani della Cattolica, guidato da Carlo Cottarelli, l’81% dell’evasione riguarda l’Iva e soprattutto l’Irpef da lavoro autonomo. L’effetto di questo si ritrova in parte nella mappa delle dichiarazioni fiscali degli italiani elaborata da Itinerari previdenziali. Che tra le altre cose mette in luce come il 43,7% delle dichiarazioni non superi i 15.000 euro di reddito lordo, cioè poco più di mille euro al mese, contribuendo a versare appena il 2,3% di tutta l’Irpef. A guadagnare o dichiarare più di 35 mila euro lordi è solo il 13,22% dei contribuenti, al quale si deve il 60% dell’imposta sulle persone fisiche. Sono cifre che raccontano di un Paese con molte sacche di povertà autentica, ma che sembra anche poco credibile nella fotografia delle reali situazioni di bisogno.

Il cantiere del Fisco. Una domanda che ci si può porre è se non sia anche la struttura stessa di aliquote, sconti e agevolazioni, a “impoverire” fiscalmente il Paese. Un’analisi sulla riforma fiscale fatta dall’Associazione famiglie numerose ha portato un esempio emblematico: se si prendono un reddito da 40.000 euro lordi e uno da 28.000, una volta calcolati Irpef, bonus, assegni, detrazioni e benefici vari legati anche all’Isee, il netto percepito diventa, rispettivamente, di 2.422 e di 2.271 euro. Per far avere solo 150 euro di aumento al lavoratore di questo esempio, inoltre, l’azienda deve spendere 16.000 euro in più l’anno. Il sistema sembra programmato per tenere bassi i profili di reddito. Le ipotesi di riforma, allo stato delle cose, non paiono voler correggere questa criticità e tantomeno quelle attinenti ai carichi familiari. Ma sarebbe un errore pensare di aver risolto tutto con l’Assegno unico, che se da un lato ha colmato un vuoto, dall’altro, col décalage che lo caratterizza, ha mantenuto l’anomalia di un fisco che non concede vantaggi, come invece avviene ovunque, a tutti coloro che crescono figli.

Il riequilibrio in termini di equità non può che avvenire tenendo conto anche della “capacità contributiva” di chi ha prole a carico

Una vera equità. Nel mettere mano al sistema fiscale l’articolo 53 della Costituzione dovrebbe rappresentare un faro. L’effetto dell’intervento sugli scaglioni di reddito va verificato alla luce del principio della progressività, che va difeso e non annacquato. Allo stesso tempo la compensazione in termini di equità deve avvenire tenendo conto che la “capacità contributiva” di chi ha figli è molto diversa da chi non ne ha, a ogni livello di reddito. Non è solo un discorso di giustizia: si tratta di definire un modello di sviluppo con una visione di futuro che agevoli le nascite. Una demografia sostenibile significa anche una crescita sostenibile, ovvero un Paese che non ha bisogno di ricorrere continuamente a sconti a pioggia per rilanciare i consumi o a bonus per sostenere settori economici che soffrono anche a causa della riduzione della dimensione delle famiglie.

(Avvenire)

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